Un gruppo di artisti dello Sheridan College ha realizzato questo splendido corto che ci racconta cosa succede nella mente di un terapeuta.
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Il modello teorico della Dissociazione che vorrei esporvi oggi è quello proposto da G. Liotti (e collaboratori). Tale modello prevede che sintomi dissociativi di rilievo clinico si presentino quando ci si trova ad affrontare un trauma che attiva il sistema motivazionale di attaccamento ma ciò non basta, tale sistema deve essere regolato da un modello operativo interno di tipo disorganizzato oppure ci devono essere impedimenti ambientali ad avere risposte alle esigenze di cura e conforto. Se non si verificano queste due ipotesi, i sintomi dissociativi saranno solo transitori.
Ricordiamo che la disorganizzazione dell'attaccamento è dovuta alla simultanea attivazione del sistema di difesa, a causa dalla paura indotta dal caregiver, e del sistema di attaccamento; il bambino in questa situazione sperimenta paura e impotenza ("paura senza sbocco"). Il caregiver può provocare paura nel bambino in due modi, mentre lo accudisce, attraverso atteggiamenti apertamente aggressivi (caregiver spaventante) o attraverso il contagio emotivo come accade quando inconsapevolmente esprime paura legata alle proprie memorie dolorose (caregiver spaventato/impotente). Il protrarsi di questa situazione porta il bambino a veri e propri sintomi dissociativi: comportamenti contraddittori e incoerenti (avvicinamenti al caregiver seguiti in maniera abnormemente veloce da movimenti di allontanamento) come se vi fossero due centri in conflitto incapaci di integrarsi in una soluzione unitaria; altre volte le risposte suggeriscono detachment dissociativo per cui il bambino appare estraniato, resta improvvisamente immobile e con lo sguardo assente o si irrigidisce. L'utilizzo di altri sistemi motivazionali interpersonali (rango, accudimento, formazione della coppia sessuale) riesce ad inibire il sistema di attaccamento nelle persone che provengono da una storia di attaccamento disorganizzato e quindi a proteggere, anche per molti anni, dall'esperienza della dissociazione. Un trauma causa dissociazione patologica e durevole perché induce il collasso delle strategie controllanti (punitiva, accudente, sessuale o evitamento relazionale) preesistenti. Un effetto simile lo si può avere anche per eventi non apertamente traumatici, ma capaci di invalidare una strategia controllante sul piano comportamentale o dei significati personali. Prima che un nuovo trauma o altri eventi di vita capaci di invalidare le strategie controllanti portino all'emergere di sintomi dissociativi, un disturbo traumatico dello sviluppo può essere suggerito a volte solo da sintomi tipici di altri disturbi come la depressione, l'ipocondria o attacchi di panico (e altri) e dai disturbi di personalità che possono derivare dall'uso continuo e coercitivo di strategie controllanti, dall'inibizione dell'attaccamento e dai deficit metacognitivi che ne conseguono. Vedi anche i seguenti articoli: - Dissociazione...un fenomeno sottovalutato - I sistemi motivazionali Bibliografia: G.Liotti, B. Farina - "Sviluppi traumatici" - Raffaello Cortina Editore Penso che molte persone si chiedano che differenza c'è tra psicologo, psicoterapeuta e psichiatra, tutte professioni che hanno a che fare col mondo "Psi" ma con preparazione e ruoli diversi.
Chi è lo psicologo? L'art. 1 della Legge 56/89 definisce: "La professione di psicologo comprende l'uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito." Per diventare Psicologo in Italia è necessario laurearsi in psicologia (laurea specialistica 3+2), sostenere un esame di stato a seguito di un tirocinio post - lauream di un anno e iscriversi all'Albo professionale di una regione italiana. Senza l'iscrizione all'Albo sezione A non si è Psicologi, ma soltanto dottori in Psicologia. Possono iscriversi nella sezione A dell'Albo i laureati in Psicologia (3+2) e nella Sezione B i dottori in Tecniche psicologiche (3 anni), a seguito del superamento dei rispettivi esami di stato. L'iscrizione è la condizione necessaria per poter lavorare ed esercitare l'attività. Cosa fa lo psicologo? Lo psicologo è un professionista che opera per favorire il benessere delle persone, dei gruppi, degli organismi sociali e della comunità. Si occupa di psicopatologia, ma non solo. Altre importanti aree di intervento riguardano una molteplicità di situazioni, personali e relazionali, che possono essere fonte di sofferenza e di disagio. L’attività dello psicologo ha l’obiettivo di favorire il cambiamento, potenziare le risorse e accompagnare gli individui, le coppie, le famiglie, le organizzazioni (es. scuola, azienda, ecc.) in particolari momenti critici o di difficoltà. Tra i molteplici ambiti di applicazione della psicologia si possono indicare gli ospedali, i consultori, le scuole, il tribunale, i servizi per l’infanzia e l’adolescenza, le comunità terapeutiche, le residenze per anziani. Nuovi settori sono quelli della psicologia penitenziaria, transculturale, della neuropsicologia, dell’emergenza, del traffico, dello sport e del benessere in senso lato. Chi è lo psicologo - psicoterapeuta? Lo Psicologo abilitato all'esercizio della Psicoterapia è in possesso di una specifica specializzazione in Psicoterapia, formazione post - universitaria di quattro anni. La Legge 56/89 regola l'esercizio dell'attività psicoterapeutica, con l'art. 3: "L'esercizio dell'attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti con le procedure di cui all'articolo 3 del citato decreto del Presidente della Repubblica. Agli psicoterapeuti non medici è vietato ogni intervento di competenza esclusiva della professione medica." Cosa fa lo psicologo - psicoterapeuta? Lo Psicologo che esercita anche l’attività di Psicoterapeuta ha una specifica specializzazione di almeno 4 anni dopo la laurea. Lo psicoterapeuta si specializza scegliendo il suo percorso formativo tra diverse scuole che adottano specifici modelli della mente e del suo funzionamento, del comportamento e delle relazioni (es. modello cognitivo - comportamentale, modello sistemico familiare, modello psicodinamico, ecc.) La competenza comune che contraddistingue questo percorso di specializzazione permette allo psicoterapeuta di offrire al paziente (o cliente) un percorso di cura per affrontare le diverse forme di sofferenza psicologica, da quella più lieve a quella più grave. Chi è lo psichiatra? Nell'ordinamento italiano lo psichiatra è un laureato in medicina e chirurgia con specializzazione post - lauream in psichiatria, quindi è prima di tutto un medico: può prescrivere farmaci generici e/o psicofarmaci con regolare ricetta medica e richiedere e valutare esami clinici (EEG, TC, PET, MRI). Il Medico specialista in Psichiatria è anche, a volte (dipende dalla scuola di specializzazione frequentata), abilitato, previa richiesta formale di annotazione in apposito elenco presso il proprio Ordine Provinciale di riferimento, all'esercizio della Psicoterapia, differentemente dagli Psicologi che, per poter esercitare la Psicoterapia, devono ottenere una specializzazione specifica. CONTROLLATE SEMPRE CHE IL PROFESSIONISTA A CUI VI RIVOLGETE SIA ISCRITTO AL RELATIVO ALBO PROFESSIONALE, NE VA DELLA VOSTRA SALUTE! Lo schema interpersonale è una struttura procedurale intrapsichica, una rappresentazione soggettiva del destino a cui andranno incontro i nostri desideri nel corso delle relazioni con gli altri. E' una struttura consolidatasi nel tempo e derivante da innumerevoli esperienze di apprendimento, da quelle precoci a quelle più recenti delle relazioni tra pari, tra colleghi, sentimentali, che sono state generalizzate.
Lo schema si articola a partire da un desiderio guidato da immagini di sé che tendono a prevedere se quel desiderio sarà soddisfatto o meno; il desiderio attiva piani o procedure volti alla sua soddisfazione di tipo "se...allora..." che tipicamente elicitano una risposta dell'Altro. Tale risposta genera una risposta del Sé alla risposta dell'Altro di tipo emotivo, comportamentale e cognitivo. Nei disturbi di personalità gli schemi sono attivati con facilità e spesso generano emozioni intense e disregolate, difficili da modulare perché sono difficili da mettere in discussione gli assunti che ne sono alla sorgente. Gli schemi interpersonali non sono, quindi, letture sensibili di quello che effettivamente accade nelle relazioni, essi generano interpretazioni rigide e disfunzionali, impedendo visioni alternative. Questa modalità di porsi indurrà nell'Altro risposte che facilmente confermeranno lo schema. Nei pazienti con disturbi di personalità le rappresentazioni si sé più comuni sottostanti al raggiungimento dei desideri si ricollegano alle seguenti credenze di base: non amabile, non adeguato, difettoso, immeritevole, di scarso valore, impotente, paralizzato, colpevole, incompetente, diffidente, tradito e onnipotente. Tra le tipiche rappresentazioni dell'altro vi sono le credenze: altro minaccioso, rifiutante, abusante, ipercritico, controllante, inetto, incapace, ingannevole, meritevole di punizione, ideale. La rappresentazione disfunzionale del sé contenuta nello schema patogeno è il motivo alla base della sofferenza o disfunzione sociale per cui il paziente comincia una terapia, mentre la rappresentazione del sé funzionale è alla base della speranza del paziente di trovare un partner relazionale, a partire dal terapeuta, che lo faccia sentire amabile o valido. Bibliografia: G. Dimaggio, A. Montano, R. Popolo, G. Salvatore - "Terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità" - Raffaello Cortina Editore Vi siete mai chiesti quali sono i più grandi rimpianti di una persona in punto di morte? Beh...un'infermiera australiana ha raccolto le testimonianze di diversi pazienti ricoverati presso l'ospedale dove lavora poco prima del fatidico evento.
Ecco la classifica: 5. Vorrei essere stato capace di rendermi più felice. "Questo è un sorprendentemente comune a tutti. Molti non si rendono conto, finché non è tardi, che la felicità è una scelta. Sono rimasti bloccati nelle loro abitudini e nella routine. Il cosiddetto 'comfort' di familiarità si è espanso anche alle loro emozioni, perfino ad un livello fisico. La paura del cambiamento li fa fingere con gli altri e mentire a se stessi, convincendosi di essere contenti, quando nel profondo, non desideravano che ridere a crepapelle e un po’ di infantilità nella loro vita. " 4. Vorrei esser rimasto in contatto con i miei amici. "Spesso non sono riusciti ad apprezzare quale privilegio magnifico fosse avere dei vecchi amici se non nelle loro ultime settimane e non sempre era stato possibile rintracciarli. Molti erano così concentrati sulle proprie vite che hanno perso per strada delle amicizie d'oro nel corso degli anni. Molti rimpiangevano profondamente di non aver dato alle amicizie il tempo e lo sforzo che si meritavano. Ognuno sente la mancanza dei propri amici quando sta morendo." 3. Vorrei aver avuto il coraggio di esprimere i miei sentimenti. "Molte persone sopprimono i loro sentimenti in modo da mantenere il quieto vivere con gli altri. Di conseguenza, si accontentano di un’esistenza mediocre e non diventano mai chi erano realmente in grado di divenire. Come risultato, amarezza e risentimento diventano delle malattie che si sviluppano dentro. " 2. Vorrei non aver lavorato così duramente. "Questo è venuto fuori da ogni paziente di sesso maschile che ho assistito. Si sono persi l’infanzia dei loro figli e la compagnia dei propri partner. Anche alcune donne hanno menzionato questo rimpianto, ma come se fossero di una vecchia generazione, molti dei pazienti di sesso femminile non erano stati capifamiglia. Tutti gli uomini che ho curato hanno rimpianto profondamente l’aver trascorso così tanto della loro esistenza a dedicarsi sfrenatamente al lavoro. " 1. Vorrei aver avuto il coraggio di vivere una vita come volevo io, non quella che gli altri si aspettavano da me. “Questo il rammarico più comune per tutti. Quando le persone si rendono conto che la loro vita è quasi finita e ripensano ad essa tirando le somme, è facile rendersi conto di quanti sogni sono rimasti insoddisfatti. La maggior parte delle persone non aveva realizzato nemmeno la metà dei loro sogni e doveva morire con la consapevolezza che era a causa di scelte che aveva compiuto. La salute offre una libertà di cui in pochi si rendono conto, fino a quando non la perdono.” Esistono alcuni pregiudizi sul sonno che, se creduti veri, possono portare alcune persone a sviluppare insonnia.
Vediamone insieme alcuni. BISOGNA DORMIRE 8 ORE E' una credenza infondata e spesso dannosa. Si tratta di un pregiudizio pericoloso perché può portare soggetti che hanno bisogno di solo quattro o cinque ore di sonno a ritenersi "malati" e a comportarsi come tali: sforzarsi di dormire di più, assumere farmaci, evitare di "affaticarsi". Non è malattia dormire cinque ore, come non è malattia dormirne nove o dieci. I "dormitori brevi" sono persone che dormono poco ma non lamentano difficoltà nell'addormentamento, affaticabilità, problemi di concentrazione o irritazione il giorno dopo. Hanno un'architettura del sonno densa di sonno REM e di stadi 3 e 4. NON DORMIRE UNA NOTTE PUO' PROVOCARE DANNI Chi non dorme per lunghi periodi, in realtà, fa dei "microsonni" che compensano in buona parte il sonno "perso". DEPRIVAZIONE DI SONNO E' assolutamente vero che una situazione specifica di deprivazione di sonno produce un calo delle nostre prestazioni cognitive. Ma è altrettanto vero che le condizioni di un tipico paziente sofferente d'insonnia è così diversa e per nulla assimilabile ad un effettiva condizione di deprivazione di sonno. Nella condizione d'insonnia cronica il nostro organismo dispone infatti di incredibili risorse di adattamento. Altrettanto erronea è la convinzione che il fatto di aver dormito bene influisca positivamente sulle nostre prestazioni del giorno dopo. Tale rapporto è costruito dalle nostre convinzioni soggettive. IL SONNO PERSO VA RECUPERATO E' inutile sforzarsi di dormire di più senza avvertirne il bisogno, ma solo per "recuperare" una notte in bianco. Ha senso dormire a piacimento la domenica, quando se ne avverta il bisogno. Non ha senso invece "sforzarsi" di dormire di più. Riassumendo molte delle preoccupazioni delle persone che dormono poco o dormono male sono infondate e derivano da pregiudizi e credenze erronee circa il sonno. Il "bisogno" di sonno varia moltissimo da persona a persona ed esistono grandi differenze nel numero di ore che le persone dormono abitualmente; converrà dunque dormire quanto basta per sentirsi riposati al risveglio, senza sforzarsi di dormire di più. Dormire poco abitualmente non compromette la lucidità e le facoltà mentali e anche i "dormitori brevi" possono essere efficienti, geniali e creativi. L'idea che si debba dormire proprio otto ore non ha fondamento scientifico e non è altro che una superstizione dell'epoca delle nostre nonne. Una deprivazione occasionale di sonno non va considerata un evento drammatico. Una deprivazione occasionale di sonno può influenzare alcune funzioni cognitive, ma in misura troppo circoscritta e modesta per avere conseguenze pratiche di rilievo. Non serve darsi pena di "recuperare" una perdita di sonno, il meccanismo del sonno è sufficientemente intelligente da provvedere da sé a compensare eventuali debiti di sonno. Non è affatto vero che più a lungo si rimane a letto più ci si alza in forma ed efficienti. Bibliografia: E. Sanavio - "Come vincere l'insonnia" - Giunti Vi pubblico una ricerca esplorativa sul Pensiero desiderante nel Binge Eating Disorder. Spesso si sente dire, a volte anche da professionisti del settore, che avere un disturbo specifico dell'apprendimento, in particolar modo la dislessia, sia uno svantaggio...quasi un handicap. In realtà, in questo articolo, volevo parlarvi dei VANTAGGI di essere dislessico...avete letto bene, vantaggi!
Le persone dislessiche riescono più facilmente ad avere una visione d'insieme, è come se mettendo un puzzle davanti ad un dislessico riesca a capire cosa raffigura (ovviamente non i minimi dettagli) prima di comporlo. Da ciò ne deriva che hanno una percezione globale, riescono a "leggere" le situazioni in modo più ampio. Hanno anche la capacità di cogliere più facilmente gli elementi fondamentali di un discorso o di una situazione (per cui non è facile raggirare un dislessico attraverso l'uso di fiumi di parole...eheheheh). Ragionano in modo dinamico per cui riescono a vedere connessioni inusuali che altri difficilmente riescono a sviluppare e questo è un pregio, non un difetto perché non ragionano come tutti! Memorizzano più facilmente per immagini e sono in grado di vedere le cose da più prospettive. Oggi si parla molto di multi-tasking...beh...i dislessici percepiscono ed apprendono in maniera multi-dimensionale, usando tutti i sensi ed elaborano le informazioni in modo globale anziché in sequenza...più multi-tasking di così. Sono persone molto creative, creano e sviluppano facilmente nuove idee e soluzioni per cui si trovano a loro agio in ambienti dinamici, in continuo cambiamento, in cui riescono a sviluppare idee e a fare previsioni...sarà per questo che la scuola ha difficoltà con loro, non riesce a stare al passo?! Iniziamo col dire che non è possibile parlare di dissociazione senza parlare di trauma visto che i due concetti sono strettamente interconnessi.
Partiamo dalla definizione di trauma psicologico secondo il DSM: "L'esperienza personale diretta di un evento che causa o può comportare morte o lesioni gravi, o altre minacce all'integrità fisica", è considerato però trauma anche una minaccia alle nostre relazioni significative, continua infatti la definizione con "Un evento che comporta morte, lesioni o altre minacce all'integrità fisica di un'altra persona; o il venire a conoscenza della morte violenta o inaspettata, di grave danno o minaccia di morte o lesioni sopportate da un membro della famiglia o da altra persona con cui si è in stretta relazione". Questa definizione appare però insufficiente a capire come mai alcune persone rimangano traumatizzate da un evento e altre, esposte alla stessa situazione, no. Qui ci viene in soccorso un'ulteriore precisazione: la risposta al trauma comprende "paura intensa, sentimenti d'impotenza o di orrore". L'elemento di percepita totale impotenza appare di cruciale importanza nella stessa definizione di trauma. In questo senso, il trauma è definito come un evento emotivamente non sostenibile per chi lo subisce, meno importante è la gravità oggettiva. La possibilità di reagire efficacemente a una minaccia pone dunque il confine tra un'esperienza estrema e grave ma non necessariamente patogena e il trauma psicologico. Vivere una situazione minacciosa alla quale è impossibile sottrarsi o reagire efficacemente neutralizzandola, e contro la quale non si ottiene sufficiente aiuto o sostegno da altri, genera un senso di sfiducia conseguente all'impotenza, che diventa uno degli elementi clinici più comuni e importanti nei disturbi correlati ai traumi. Anche senso di colpa e vergogna sono due emozioni comuni nelle persone traumatizzate. Esse derivano dalla percezione di mancato controllo della situazione, durante l'evento traumatico, che viene imputato ad una mancanza personale o ad un proprio difetto invece, come sarebbe corretto, alla disattivazione del corpo durante la dissociazione. La dissociazione è un disturbo della coscienza che deriva da quelle intense emozioni di paura e impotenza senza sbocco che provocano un cedimento strutturale della stessa. Ora vedremo le varie forme e i modi di presentarsi della dissociazione utili per saperla riconoscere. Un elenco parziale dei sintomi con cui possono manifestarsi i processi disintegrativi comprende derealizzazione, depersonalizzazione, stati di confusione mentale, stati di trance e possessione, stati di assorbimento e attenzione divisa, amnesia psicogena, ricordi intrusivi, gravi difficoltà nell'organizzare narrazioni autobiografiche coerenti, confusione e alterazione del senso d'identità, stati dell'io multipli e non integrati e gravi difficoltà a regolare gli stati emotivi. Per mettere ordine in questa moltitudine di sintomi, anche sulla base del loro ipotizzabile diverso meccanismo di genesi, è stato proposto recentemente di ripartirli in due categorie: detachment (distacco) e compartmentalizazion (compartimentazione) (Holmes e al. 2005). I sintomi dissociativi di distacco rimandano tutti, direttamente, all'esperienza di sentirsi alienati dalle proprie emozioni (numbing emotivo), dal proprio corpo (depersonalizzazione), dal senso usuale di familiarità di realtà ambientali note (derealizzazione). La forma di coscienza che appare alterata nel distacco o alienazione è quella in prima persona, nota nella scienza cognitiva anche come coscienza fenomenica. Il mondo della coscienza fenomenica è il mondo dei qualia (es. di qualia sono: il sapore di una mela, il profumo di una rosa...esperienza che tutti noi conosciamo ma che non sappiamo descrivere se non approssimativamente), caratterizzato da un'evidente natura qualitativa, preverbale, dei suoi componenti: sensazioni, sentimenti, emozioni e in genere immagini mentali fra le quali un ruolo centrale per la coscienza è svolto dall'immagine corporea (Damasio, 1999). Il primo effetto patogeno del trauma è quello di "far perdere confidenza con l'esperienza interna" (Albasi, 2009). I sintomi dissociativi di compartimentazione riguardano invece la coscienza in terza persona o cognitiva, chiamata anche coscienza di accesso, perché i suoi componenti sono prevalentemente verbali o rappresentati da immagini mentali alle quali si ha accesso cosciente, e spesso deliberato, attraverso la parola. In questo tipo di sintomi, sono impediti i confronti e le connessioni semantiche fra contenuti mentali che normalmente dovrebbero poter entrare simultaneamente nel campo della coscienza. Esempio prototipico è quello dell'amnesia dissociativa in cui un ricordo non è più accessibile a causa del processo dissociativo a differenza delle emozioni associate al trauma che si ripresentano. Esiste anche una forma di dissociazione somatoforme in cui i sintomi dissociativi hanno origine comune in un deficit integrativo di tipo bottom-up, causato dalla mancata integrazione dei dati provenienti dai centri nervosi inferiori, sedi delle afferenze e delle memorie somatoviscerali (bottom), con le capacità rappresentazionali e riflessive della coscienza (up). I sintomi che ne derivano variano da quelli di conversione, in cui sono alterati le funzioni, il controllo e la consapevolezza di alcune parti del corpo, a sindromi dolorose psicogene, a somatizzazioni. Bibliografia: G. Liotti, B. Farina - "Sviluppi traumatici" - Raffaello Cortina Editore P. Ogden, K. Minton, C. Pain - "Il Trauma e il Corpo" - Istituto di Scienze Cognitive Editore Spesso le persone che soffrono di disturbi d'ansia non sono consapevoli di mettere in atto processi mentali o comportamenti che fanno si che il loro problema si mantenga anziché risolversi. Esistono alcuni macroprocessi che ora andrò a descrivere responsabili di questo fenomeno.
Bibliografia: S. Sassaroli, R. Lorenzini, G.M. Ruggiero - "Psicoterapia cognitiva dell'ansia" - Raffaello Cortina Editore |
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Blog del Dr. Fabio Boccaletti - Psicologo e PsicoterapeutaCategorie
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