DR. FABIO BOCCALETTI - PSICOLOGO E PSICOTERAPEUTA
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2/6/2020

Miti e leggende sulle emozioni

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Nella nostra società esistono diverse convinzioni sulle emozioni ma molti di questi "falsi miti" ci fanno sentire peggio. Sfatiamo alcuni miti sulle emozioni:

  • Se reprimo le mie emozioni, spariscono: se reprimiamo le emozioni, restano dentro il nostro corpo. Invece di gestire quello che sentiamo, infatti, accumuliamo le emozioni fino al momento in cui scoppiamo (effetto pentola a pressione) o molto peggio: le schiacciamo così tanto che si convertono in blocchi fisici o malattie.  
  • Esistono emozioni positive e negative: nonostante molti autori le classifichino in questo modo, in realtà tutte le emozioni che sentiamo sono adattive. Che vuol dire? Che grazie a tutte le emozioni che proviamo esistiamo ancora come specie. Se entrasse in questo momento un leone nella tua stanza, che faresti? Ti nasconderesti o rimarresti fermo o saliresti sul tavolo. Tutte queste reazioni, come la paura, servono a proteggere la nostra vita. Sicuramente alcune sono più gradevoli di altre, però l’obiettivo finale delle nostre emozioni è la nostra sopravvivenza. 
  • Mostrare le emozioni vuol dire essere deboli: durante le varie epoche, a seconda delle culture, le emozioni sono state un tabù, qualcosa che non si poteva mostrare perché era segnale di debolezza. Quest’affermazione, più che un falso mito in sé, è un messaggio che ci hanno trasmesso generazione dopo generazione. Se piangiamo perché siamo tristi non vuol dire che siamo deboli ma solamente che abbiamo intelligenza emotiva. Allo stesso modo, ora sappiamo che mostrare le nostre emozioni è una necessità per l’essere umano perché fa parte della capacità d’espressione che tutti abbiamo. Quando ci impediscono o impediamo a noi stessi di esprimere le emozioni, questo ci fa sentire molto male. In realtà la nostra forza è nella nostra vulnerabilità, ossia nella capacità di mostrarci per quello che siamo e nell’accettare noi stessi. 
  • Occhio non vede, cuore non duole: anche se facciamo finta di non vedere, in realtà vediamo e di conseguenza proviamo emozioni. Possiamo comportarci come se fossimo indifferenti però in realtà non lo siamo. Se interrompiamo i rapporti con qualcuno e non lo vediamo più, possiamo pensare che soffriremo meno, però in realtà è necessario vivere il lutto per la perdita. Far finta che non succeda niente ci causa solamente più problemi. 
  • Bisogna essere sempre allegri: l’allegria è un’emozione gradevole che ci piace provare costantemente. Nonostante ciò, non è possibile essere sempre allegri. Perché? Perché anche le emozioni che non sono molto gradevoli da provare (paura, rabbia, tristezza...) sono necessarie per dare valore a quello che abbiamo. Le emozioni come la paura, la tristezza o la rabbia, servono per connetterci con noi stessi, riflettere, dare valore a ciò che abbiamo, essere cauti e porre limiti. 
  • La rabbia è un’emozione da evitare: da piccoli c’insegnano che arrabbiarci non va bene, da adulti abbiamo imparato (in generale) a non mostrare la rabbia o al contrario, la mostriamo in maniera esagerata. Come le altre, anche la rabbia è un’emozione necessaria per porre limiti nella nostra vita e non lasciarci calpestare dagli altri. Se quando ci arrabbiamo sappiamo esprimere quello che sentiamo in un modo rispettoso e sano, possiamo liberarci di un peso e permetterci di porre limiti nella nostra vita. In alcuni casi non lo faremo nel modo più rispettoso possibile però impareremo volta per volta. 
  • Bisogna sconfiggere la paura: c’insegnano che la paura è un nemico contro cui bisogna lottare. Tuttavia questa non è una buona soluzione. Se diciamo a noi stessi “non devo aver paura di parlare in pubblico” che succede? Il nostro cervello capisce che devo aver paura mentre sto parlando in pubblico. Se invece di respingere la paura lasciamo che ci accompagni, non diventerà una nemica ma un'alleata e saremo in grado di parlare in pubblico. Questo farà in modo che la paura si presenti solo quand’è necessario, ossia per proteggerci da pericoli reali. 
  • Se mi distraggo la tristezza va via: se ci distraiamo quello che succede è che la tristezza resta per un attimo in un angolo però continua a essere presente. Può servirci in alcuni momenti, ma in altre situazioni questa tristezza non si risolverà. Se abbiamo una brutta giornata e siamo tristi perché abbiamo discusso con i nostri figli o con il partner, è importante provare tristezza, la sensazione fisica e se lo sentiamo possiamo anche piangere. Solo se lasciamo uscire la tristezza e non la reprimiamo, se spieghiamo all’altra persona come ci sentiamo, possiamo far in modo che vada via. 
  • Le emozioni sono permanenti: quando stiamo male ci sembra che durerà in eterno, come se la tristezza, la rabbia o la paura non finissero mai. Tuttavia tutte le emozioni vanno e vengono. Come un’onda nel mare va e viene: se proviamo un'emozione nel nostro corpo, la osserviamo, la identifichiamo, la esterniamo se è necessario, poco a poco sparirà. 
  • Se provo un’emozione forte devo ragionare: non è possibile ragionare quando stiamo vivendo un’emozione molto forte perché ci sta parlando il nostro corpo. Una volta che si riduce la risposta emozionale si può ragionare e capire ciò che abbiamo provato. Esempio: Se abbiamo una discussione con nostro fratello prima deve scemare la rabbia e dopo potremo capire quello che è successo. Lasciare che le emozioni seguano il processo naturale è benefico per il nostro corpo.

La gente che ascolta le proprie emozioni senza ignorarle fa in modo che il suo livello di fiducia aumenti.

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14/3/2020

indicazioni per i soccorritori: autoprotezione per soccorritori e sanitari impegnati nell'emergenza coronavisrus

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Nelle situazioni di maxiemergenza, quando un grave evento critico colpisce una popolazione intera come in questo caso, si viene a creare una condizione di elevata emotività che riguarda l'individuo, la comunità e gli stessi soccorritori.
E’ l’evento critico stesso che causa anche nei soccorritori reazioni emotive particolarmente intense, tali da poter talvolta interferire con le capacità di funzionare sia durante l’esposizione allo scenario che in seguito, per tempi diversi e individuali.

Durante la fase operativa
puoi sperimentare alcune delle seguenti reazioni:
  • Disorientamento di fronte al caos dello scenario
  • Stress da sovraesposizione di richieste (appelli delle vittime, bisogni cui far fronte…)
  • Impotenza e inadeguatezza
  • Onnipotenza e assenza della percezione del limite
  • Identificazione con le vittime e/o familiari
  • Frustrazione e rabbia per il mancato riconoscimento e/o la disorganizzazione istituzionale

A fine turno e/o al rientro a casa puoi provare una vasta gamma di emozioni quali tristezza, colpa, rabbia, paura, confusione e ansia. Talvolta, invece, apparentemente non “si sente” nessuna emozione. Possono anche svilupparsi reazioni somatiche come disturbi fisici (mal di testa, disturbi gastro intestinali, ecc.), difficoltà a distendersi e rilassarsi. Vi sono marcate differenze individuali nella comparsa, nella durata e nell’intensità di queste reazioni. Poiché il processo di elaborazione è soggettivo, è possibile che in alcuni compaia solo una di queste reazioni oppure diverse contemporaneamente, in un giorno o in un arco temporale più lungo.

L’intervento in soccorso si articola in diverse fasi e ognuna di esse è associata a specifiche reazioni.

1) ALLARME: inizia quando si viene a conoscenza di un evento critico in cui bisogna intervenire. Si può considerare come il primo impatto con l’evento critico.
Le reazioni:
- fisiche: accelerazione del battito cardiaco, aumento pressorio, difficoltà respiratorie;
- cognitive: disorientamento, difficoltà a dare senso alle informazioni ricevute e nel comprendere la gravità dell’evento;
- emozionali: ansia, stordimento, shock, inibizione;
- comportamentali: diminuzione dell’efficienza, aumento del livello di attivazione, difficoltà di comunicazione.

2) MOBILITAZIONE: rappresenta il momento in cui gli operatori iniziano ad agire sulla scena. In questa fase sono presenti a livelli minori i vissuti e le reazioni della fase precedente. A questi si associano, come fattori di recupero dell’equilibrio, il trascorrere del tempo, il passaggio all’azione finalizzata e coordinata e l’interazione.

3) AZIONE: è il momento in cui l’operatore di soccorso inizia l’intervento di promo soccorso a favore delle vittime. Le emozioni vissute possono essere molteplici e contrastanti tra loro.
Le reazioni:
- fisiche: aumento del battito cardiaco, della pressione, della frequenza respiratoria, nausea, sudorazione, tremore;
- cognitive: difficoltà di memoria, disorientamento, confusione, perdita di obiettività, difficoltà di comprensione;
- emozionali: senso di invulnerabilità, euforia, ansia, rabbia, tristezza, sconforto, assenza di sentimenti;
- comportamentali: iperattività, aumento dell’uso di tabacco o alcol o farmaci, facilità allo scontro verbale, perdita di efficienza ed efficacia nelle azioni di soccorso.

4) LASCIARSI ANDARE: è il momento che si verifica alla fine del servizio, quando si ritorna alla routine lavorativa e sociale.
I contenuti che caratterizzano questa fase sono:
- carico emotivo, durante l’azione è stato represso e nel ritorno alla normalità riemerge;
- complesso di vissuti, rappresentato dalla separazione con i colleghi e il ritorno alla quotidianità con le relative aspettative.

In conclusione, a seconda della fase e della soggettività di ciascun individuo coinvolto nell’operazione di soccorso sono molteplici e differenti le reazioni fisiche, cognitive, emozionali e comportamentali che possono verificarsi.

Le reazioni più comuni che possono durare per un periodo di alcuni giorni e/o alcune settimane:
  • Comparsa di immagini/pensieri intrusivi: immagini ricorrenti della scena e pensieri disturbanti collegati all’evento subentrano contro la propria volontà;
  • Sensazioni d’ansia/paura eccessiva: aumentato senso di agitazione, comparsa di paure non presenti precedentemente;
  • Tendenza all’evitamento: procrastinare l’operatività, non voglia di tornare sullo scenario, pensieri sull’abbandonare la divisa che si veste, ecc…
  • Reazioni eccessive allo stress ordinario: incapacità di dosare le reazioni a sollecitazioni esterne, si perde più facilmente la calma;
  • Aumento irritabilità: comparsa di rabbia o ira immotivata;
  • Senso d’isolamento: sensazione di abbandono e solitudine, voglia di isolarsi e non parlare con nessuno, sensazione di “essere diversi”;
  • Confusione mentale: facilità a distrarsi, difficoltà di concentrazione e/o incapacità di prendere decisioni, alterazione della normale capacità di giudizio;
  • Problemi relazionali: difficoltà nei rapporti con colleghi, con familiari e amici;
  • Difficoltà nel dormire e/o difficoltà nell’alimentazione: fatica ad addormentarsi, risvegli e incubi frequenti oppure ipersonnia, in altre parole dormire molte più ore;

COSA SI PUO’ FARE
  • Saper riconoscere le proprie reazioni emotive e le difficoltà che si possono avere durante e dopo l’esposizione, allo scopo di decomprimere quanto prima il proprio livello di stress
  • Non negare i propri sentimenti ma ricordarsi che è normale e tutti possono avere delle reazioni emotive dopo un evento così devastante
  • Saper monitorare le proprie reazioni fisiche ed emotive, riconoscendo i propri sistemi di attivazione
  • Rispettare i propri turni di riposo e recuperare energie fisiche e mentali
  • Ricordarsi che non si è soli, ma inseriti in un sistema e in un’organizzazione che può sostenere e aiutare anche gli stessi soccorritori
  • Osservare il proprio stato emozionale, senza giudicarsi
  • Parlare degli eventi critici avvenuti in servizio, aiutandosi a scaricare la tensione emotiva
  • Rispettare le reazioni emotive degli altri, anche quando sono completamente differenti e poco comprensibili per il proprio punto di vista
  • Tutelare il proprio equilibrio emotivo accedendo ai sistemi di supporto offerti per i soccorritori. Parlare con un esperto di reazioni post-traumatiche che possiede delle informazioni sulle reazioni specifiche può favorire e velocizzare il tempo di risoluzione delle reazioni stesse
  • Accedere, quando e se possibile, agli interventi di decompressione offerti alle squadre di soccorritori. Esistono strumenti specializzati nel supporto e nella prevenzione delle reazioni post-traumatiche che possono essere applicati con tempestività e con efficacia già nelle prime ore successive all’operatività

PROTEGGERSI PERMETTE DI PROTEGGERE AL MEGLIO TUTTA LA POPOLAZIONE

Se le reazioni persistono e non notate un miglioramento è utile rivolgersi a professionisti preparati che, con un breve ciclo di incontri individuali o di gruppo, possono aiutarvi a fronteggiare al meglio il disagio.

Gli operatori sanitari impiegati nell’emergenza sono occupati nel fornire supporto e sostegno emotivo alle persone coinvolte come vittime di primo tipo nell’evento. Questo comporta l’insorgere di alcune possibili difficoltà, come ad esempio il coinvolgersi emotivamente nella situazione delle persone o dei parenti colpiti. Fondamentale è la capacità degli operatori di soccorso di imparare a riconoscere e gestire le proprie reazioni nelle varie situazioni di emergenza. In questo caso impossibile non sentirsi travolti dalla sensazione di impotenza e di mancato controllo. In tal senso è indispensabile richiedere un supporto specifico sia durante che dopo il termine della propria attività.

L’EMDR

L’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) rappresenta, ad oggi, lo strumento principale all’interno delle linee guida dell’OMS per il trattamento del Disturbo da Stress Post - Traumatico. Questo viene utilizzato come strumento di prevenzione nello sviluppo dei possibili disturbi psicologici che possono insorgere a seguito di un evento critico o potenzialmente traumatico. Lo strumento, quindi, risulta essere utili per la gestione e la decompressione delle reazioni peri - traumatiche sia nella popolazione coinvolta sia negli operatori che intervengono nella gestione subito a seguito dell’evento.
L’EMDR è stato scoperto e definito da Francine Shapiro nel 1987. La base teorica su cui si fonda è l’Elaborazione Adattiva dell’Informazione.
L’obiettivo della terapia attraverso l’utilizzo dell’EMDR è quello di riattivare il processo di auto - guarigione del cervello e desensibilizzare i momenti più disturbanti connessi all’evento critico vissuto.
Nel corso degli anni, si sono sviluppati differenti protocolli EMDR standardizzati, validati e attraverso la ricerca scientifica si sono mostrati efficaci per la gestione delle reazioni peri - traumatiche e post - traumatiche.
Negli interventi EMDR immediatamente a seguito del verificarsi di un evento potenzialmente traumatico vengono prevalentemente utilizzati il protocollo per un evento critico recente (Shapiro & Laub, 2008) e il protocollo EMDR di gruppo (Jarero & Artigas, 2009).
In conclusione l’EMDR può rappresentare uno strumento utile per trasformare un episodio di vita negativo in un episodio positivo, di apprendimento e di miglioramento personale.

- Materiale liberamente tratto da dispense fornite dall'Associazione EMDR Italia

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2/3/2020

coronavirus: linee guida per gli aspetti emotivi e psicologici

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In questi giorni il diffondersi del Coronavirus (COVID-19) è da considerarsi un evento psicologicamente critico impattante nei nostri territori.
E’ importante essere consapevoli del livello di efficienza e prontezza d’intervento delle nostre Istituzioni e reti sanitarie. Sono attivati una serie di Servizi e interventi per rilevare l’andamento della diffusione del virus nonché per la cura dei contagiati in Italia che altri paesi europei non sembrerebbero aver disposto con questa capillarità. Questo è un merito italiano per il forte orientamento al servizio che è stato dato alla sanità pubblica, sicuramente migliorabile ma evidentemente di livello. Sono state prese delle misure cautelari da parte delle Istituzioni molto significative e fortemente protettive per noi cittadini in via preventiva e anche gli ospedali si sono attivati offrendo servizi. Nulla è stato perfetto e tutto è migliorabile ma la reazione c’è stata ed è stata messo in campo tempestivamente e capillarmente.
A fronte di una valutazione del rischio sanitario, assistiamo ad una indubbia ed intensa traumatizzazione psicologica individuale e collettiva sulla base della “fama” che il virus ha acquisito. L’evidente traumatizzazione psicologica si è evidenziata su due livelli: sia personale, per le persone direttamente colpite e per i loro famigliari, che collettiva, nel rispecchiamento e nelle immagini che provengono dall'angoscia generale.
La dinamica che si sta presentando è di un passaggio dal funzionamento del nostro sistema nervoso Ventrovagale (livello di capacità riflessive e logiche) al sistema di Attacco e Fuga in cui è prioritaria l’azione difensiva disconnessa dalle capacità più evolute del sistema Ventrovagale. Tale passaggio si rileva per esempio dai supermercati con scaffali svuotati, dai negozi poco affollati, dalle persone di origine cinese anche bambini che vengono isolate o addirittura maltrattate, corsa alle mascherine e disinfettanti, ecc.
Le conseguenze emotive e psicologiche della traumatizzazione posso essere alleviate parlando con uno psicologo che ci può aiutare ad elaborare il momento e seguendo i consigli pratici elencati sotto.

CONSIGLI PRATICI PER I CITTADINI

1) Privilegiamo come fonti di informazioni soprattutto i canali ufficiali.

- Ministero della Salute: http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus
- Istituto Superiore di Sanità: https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/

Nei momenti di emergenza in cui la paura e l‘irrazionale inevitabilmente rischiano di prendere il sopravvento, bisogna prendersi cura di sé e non mettersi in condizione di esporsi a informazioni non adeguate e non qualificate incorrendo in fake news o notizie emozionalmente cariche di vissuti ma non basate su dati oggettivi.

2) Scegliere 2 momenti al giorno per informarsi e il canale attraverso il quale si vuole farlo.
L’esposizione continua alla mole di informazioni via web, radio e TV fa rimanere in stato perennemente eccitatorio il nostro sistema di allerta e paura. Per questo meglio scegliere uno o due momenti al giorno nei quali informarsi.

3) Seguire i consigli sulle norme di igiene indicate dal Ministero della Salute.

4) Non interrompere per quanto possibile la propria routine.
In contesti emergenziali bisogna ancorarsi a ciò che è certo, noto e prevedibile. Continuare il lavoro e le proprie abitudini laddove possibile. Rispetta sempre le norme di sicurezza vigenti.

5) Attività fisica ed esporsi all’aria aperta anche da casa è importantissimo (balcone, finestra aperta al sole, giardino).
Scaricare le tensioni attraverso “il fare” permette un migliore riposo notturno.

6) Riposarsi adeguatamente.
Attività rilassanti serali, meglio non vedere notiziari o speciali sul Coronavirus prima di addormentarsi per non scivolare nel sonno con emozioni negative o con senso di allerta.

7) Mangiare nel modo più regolare possibile e bere acqua.
Mangiare molta frutta, verdura e alimenti rafforzativi del sistema immunitario. Possiamo combattere attivamente il Coronavirus rendendo più sano e forte il nostro organismo.

8) Parlare e passare del tempo con la famiglia e gli amici.
Avere restrizioni di movimento NON significa annullare la socializzazione: utilizziamo videochiamate, Skype e insegniamo ai più anziani come fare per non rimanere "isolati nell'isolamento".

9) Parlare dei problemi con qualcuno di cui ci si fida.
Scegliere le persone con cui avere un confronto empatico e costruttivo.

10) Fare attività che aiutano a rilassarsi: yoga, training autogeno, meditazione, leggere, giardinaggio, ecc.

11) Stacca la spina!
Ricordati di parlare di altro, distrarsi e uscire dal loop di discorsi angoscianti e catastrofisti serve a rafforzarci (ansia e rabbia costanti indeboliscono il sistema immunitario).

Vedi anche il seguente articolo per capire quelle che possono essere reazioni normali in questi casi:
- Disturbo da Stress Post-traumatico

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21/8/2019

Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) in età evolutiva

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Per comprendere a fondo l'impatto del trauma sul cervello in via di sviluppo, è necessario tener presente sia il trauma in sé, sia il contesto familiare di riferimento. Per un bambino e per un adolescente, un evento traumatico è qualsiasi evento che sovrasti la sua capacità di gestire e regolare le reazioni emotive. La capacità di gestirle dipende dalla fase di sviluppo in cui il cervello si trova. La capacità di elaborare i traumi, però, può essere affinata o ostacolata dalle prima relazioni infantili. Nel bambino la corteccia cerebrale, sede di ragionamenti e associazioni, non è completamente sviluppata, per cui questa funzione riflessiva viene svolta, in modo vicario, dagli adulti significativi, che attribuiscono un significato agli eventi. Al bambino basta sintonizzarsi sullo stato mentale del caregiver per sentirsi al sicuro o in pericolo. Per esempio nei bambini piccoli, vittime di catastrofi naturali, l'immagine traumatica ricorrente non è tanto quella relativa a scenari di distruzione, ma quell'espressione spaventata del volto della madre. Se gli adulti non svolgono questa funzione, si crea una condizione di vulnerabilità, che influenzerà negativamente sia la capacità di elaborare gli eventi, che subirà un arresto, sia l'intero sviluppo, a livello cognitivo, emotivo e sociale. In questo caso, le emozioni e le sensazioni sono così intense che restano immagazzinate nella parte "emotiva" del cervello (il cervello limbico), generando sintomi e comportamenti disfunzionali, mentre la parte "pensante" del cervello (la corteccia), già di per sé non completamente matura, non si connette con il cervello limbico e non può pertanto discriminare il passato dal presente, né riflettere sull'esperienza in modo utile e costruttivo.

Le risposte al trauma in età evolutiva

Il PTSD nella fascia d'età prescolare
A queste età, la dimensione dell'intrusività si può osservare nel gioco post-traumatico, nella presenza di ricordi ricorrenti, nei sogni e nei sintomi dissociativi.
Il gioco post-traumatico è un gioco ripetitivo, contenente aspetti, scene o sequenze dell'evento traumatico, espressi in maniera esplicita o rappresentati simbolicamente. I tentativi di elaborazione del cervello infantile si esprimono attraverso la rimessa in scena di quanto accaduto, con la riproduzione compulsiva di alcuni aspetti della situazione traumatica, ma questo può avvenire anche attraverso il disegno. Il gioco post-traumatico contiene molti elementi di realtà, a discapito degli elementi fantastici, e perde il suo valore catartico. L'avvenuta elaborazione del ricordo traumatico, invece, si esprime attraverso un gioco simbolico esplorativo oppure attraverso un gioco che riproduce le stesse tematiche dell'evento traumatico, ma in maniera adattiva, cioè i contenuti si modificano in maniera dinamica verso finali alternativi, con raggiungimento dello stato di calma ed il ritorno al gioco libero esplorativo.
I ricordi intrusivi ricorrenti sono probabilmente presenti alla mente del bambino quando fa affermazioni o domande sull'evento, anche se non necessariamente traspare preoccupazione dal volto e dalla prosodia, ma, al contrario, può trasparire fascinazione, soprattutto al di sotto dei 6 anni.
Anche i sogni possono presentare contenuti spaventosi, non sempre chiaramente collegati al trauma e non sempre identificabili.
I sintomi dissociativi equivalenti dei flashback dell'adulto sono evidenti quando avviene la riproduzione di alcuni aspetti dell'evento in modo inconsapevole: ad esempio, un bambino che ha vissuto un terremoto e che sta giocando con i pupazzetti, sente un oggetto cadere all'improvviso con un forte tonfo e comincia a spargere i giochi e a buttarli a terra.
L'iperarousal può esprimersi attraverso l'iperattività o attraverso una forma di eccitazione generalizzata, che fa apparire i bambini come allegri in modo ostentato e "su di giri". Oltre a questo, tutta una serie di cambiamenti comportamentali possono essere descritti dai genitori in seguito all'evento. I bambini in età prescolare, in genere, hanno difficoltà a verbalizzare le loro emozioni e possono scoppiare a piangere o diventare molto tristi all'improvviso oppure lamentare sintomi fisici, come cefalea e dolori addominali. Si possono osservare regressioni a fasi di sviluppo precedenti, per cui possono di nuovo comparire crisi evolutive che erano già state superate, come la fobia dell'estraneo, l'ansia da separazione, l'enuresi notturna o diurna, la paura del buio, oppure avviene un ritorno ad abitudini ormai abbandonate, come succhiare il pollice, svegliarsi la notte e il co-sleeping.

Il PTSD nel bambino in età scolare
A quest'età, non sempre i bambini manifestano sintomi dissociativi come i flashback, ma possono collocare gli eventi traumatici in un ordine errato e possono arrivare a pensare che alcuni segni potevano preannunciare l'evento traumatico, per cui si concentreranno su questi per evitare che possa accadere di nuovo, vivendo in uno stato di allerta.
L'evitamento può essere associato a scarso o assente interesse per il gioco o lo sport, si possono ridurre notevolmente i comportamenti esplorativi, la disponibilità nel partecipare a nuove attività e la ricerca del contatto con i pari. Le alterazioni negative dei pensieri e dei sentimenti si manifestano attraverso l'incremento di emozioni come la collera, la tristezza, la vergogna, la sensazione di confusione e la scarsa espressione di emozioni positive come la gioia.
L'iperarousal può interferire negativamente sul rendimento scolastico, sul comportamento e può creare problemi nelle relazioni con i coetanei.

Il PTSD nell'adolescente
Nella fascia d'età adolescenziale, il PTSD si manifesta principalmente attraverso immagini intrusive, di cui spesso i ragazzi non riescono a parlare, inquietudine ed aggressività, disturbi del sonno e difficoltà di concentrazione. Quando i traumi sono ripetuti o prolungati, l'adolescente può soffrire di disturbi dissociativi importanti e sintomi psicotici. Quando l'evento traumatico riguarda un abuso, l'adolescente può anche sviluppare, oltre ai fenomeni dissociativi, lamentele somatiche, sentimenti d'impotenza, perdita di controllo, ostilità, disturbi alimentari e può andare incontro ad agiti sessuali ed essere incapace di mantenere buone relazioni sociali. Gli adolescenti possono modificare radicalmente le loro abitudini di vita e manifestare il PTSD in due modi opposti: restando ancorati ad una fase pre-adolescenziale oppure sperimentando una fase adolescenziale spericolata, ai limiti della sicurezza. Tuttavia, a volte, nello stesso ragazzo coesistono più caratteristiche dell'una e dell'altra modalità descritte di seguito.
Nel primo caso, l'angoscia ed i pensieri catastrofici minano quel senso di sicurezza che è necessario per separarsi dalle figure genitoriali e per investire nelle relazioni con il gruppo dei pari e nel futuro, per cui traumi molto gravi possono ritardare enormemente l'età dello svincolo ed ostacolare il passaggio all'adolescenza, fase della vita in cui deve avvenire una graduale conquista dell'autonomia. In questi casi, sono più evidenti i sintomi di evitamento che si esprimono attraverso la perdita d'interesse per attività precedentemente gratificanti, attraverso la limitazione dei rapporti con i familiari e con i coetanei e la riluttanza a stringere nuove amicizie, fino al ritiro sociale. Possono, inoltre, comparire limitazioni nel raggiungimento di nuovi livelli di autonomia, per esempio nel prendere la patente e nel perseguire aspirazioni per il futuro. Per quanto riguarda le alterazioni del pensiero e degli affetti, questi ragazzi possono facilmente pensare di essere dei vigliacchi, degli indegni o convincersi di essere cambiati in modo tale da non essere più accettati dagli amici, per esempio sentendosi inadeguati nella forma fisica. Inoltre, possono provare tristezza, fino ad una franca depressione o alla restrizione della gamma dei sentimenti, sentirsi distaccati dall'ambiente e dagli altri, sensibilità al giudizio altrui, sviluppare comportamenti auto-lesivi e idee suicidarie.
Un'altra fascia di adolescenti risente maggiormente dell'iperarousal ed è più soggetta a scoppi d'ira, porta all'estremo la ricerca di emozioni forti, rischiando di arrecare danno a se stessi e ad altri con comportamenti a rischio, può sviluppare veri e propri disturbi della condotta e diventare più vulnerabile all'uso eccessivo di sostanze che, di per sé, fa parte di, e rinforza, atteggiamenti d'evitamento.
Il cervello degli adolescenti è particolarmente vulnerabile agli effetti del trauma sull'arousal, poiché i circuiti cerebrali della dopamina subiscono un potenziamento a quest'età, con un decremento dei livelli di base e un incremento del rilascio in seguito ad esperienze gratificanti, motivo per cui aumenta la ricerca di esperienze nuove ed eccitanti, con tendenza all'impulsività e alle dipendenze. Tra l'altro, in quest'epoca della vita, la corteccia cerebrale e le sue funzioni riflessive non sono arrivate a completa maturazione e i ragionamenti risentono ancora di un sovraffollamento di informazioni irrilevanti, prima che il pruning si concluda. Se, da una parte, le caratteristiche del cervello adolescenziale servono a portare alla massima espressione i comportamenti esplorativi, per l'acquisizione di nuove abilità e di nuove soluzioni creative per la risoluzione di problemi, dall'altra, esse espongono maggiormente l'individuo agli effetti dannosi del trauma, soprattutto se la funzione riflessiva vicariante genitoriale si mostra carente. Inoltre, le conseguenze di eventuali esperienze traumatiche infantili non risolte e silenti possono emergere proprio durante l'adolescenza e sommarsi ai traumi più recenti con un effetto a valanga man mano che avviene la sfoltitura dei neuroni attraverso il pruning.

Il contesto di accudimento come fattore di rischio o di protezione

Il contesto di accudimento può modulare le reazioni infantili al trauma, ridimensionando o amplificando l'impatto che tale evento avrà: per tanto, se la figura di attaccamento (genitore) si mostra traumatizzata o precaria, inadeguata o, addirittura, maltrattante, si creano i presupposti necessari per l'insorgenza di un PTSD acuto o cronico. In altre parole, se gli adulti non elaborano, il bambino non elabora a causa dell'immaturità della parte corticale del cervello e dell'incompleta mielinizzazione delle cellule nervose. Per tale motivo, l'adulto deve essere in grado di far fronte alla minaccia e alle sue conseguenze. Per comprendere l'importanza della relazione sicura con il genitore al fine di limitare gli effetti del trauma, è necessario allargare il discorso alla teoria dell'attaccamento. I neonati ed i lattanti esposti al pericolo non possono reagire con risposte di attacco/fuga, tipiche del sistema di difesa, poiché il livello del loro sviluppo motorio non lo consente. I bambini più grandi, seppur in grado di spostarsi autonomamente, non possono portare a compimento le risposte di attacco/fuga poiché non hanno la forza fisica per attaccare, né si sentono in grado di fuggire senza la presenza di una figura di attaccamento che garantisca la loro sopravvivenza. Lo scenario che si prospetta di fronte alla minaccia fisica è la morte, ma il cervello dispone di altre strategie comportamentali selezionate evolutivamente per aumentare le possibilità di sopravvivenza della specie. Nelle prime fasi di minaccia, i bambini provano terror panico, con attivazione del sistema nervoso simpatico e iperarousal. A questo punto, si attiva il sistema dell'attaccamento e il bambino produce dei segnali di richiamo, come il pianto, che innesca il sistema di accudimento nella figura di attaccamento, con lo scopo di ricevere da essa protezione e conforto. Se lo stile d'attaccamento col genitore è di tipo sicuro, il genitore risponde prontamente ed in modo adeguato alla richiesta di vicinanza protettiva, ripristinando lo stato di calma. Secondo la teoria polivagale di Porges, l'interazione col genitore determina una regolazione dell'arousal del bambino attraverso il ramo ventrale del nervo vago, che è la branca più evoluta del sistema parasimpatico. Il freno vagale, attivato nel bambino dall'atteggiamento calmo, dal tono di voce pacato e, attraverso il contatto fisico, dalla sincronizzazione madre-bambino dei battiti cardiaci e delle frequenza del respiro regolari, inibisce la risposta simpatica. Soltanto quando è attivo il ramo ventrale del nervo vago è possibile l'interazione sociale, attraverso la quale, in un secondo momento, il genitore filtra, riprocessa le informazioni e le trasmette al figlio con un significato adattivo. Soltanto in questo stato fisiologico il bambino può avvalersi del modello rappresentato dal genitore per l'acquisizione di efficaci strategie di coping e può imparare ad organizzare e ad integrare le informazioni a livello cognitivo e affettivo, per poter elaborare l'evento.
A volte, però, il genitore stesso può essere traumatizzato e/o sviluppare un PTSD e possono verificarsi situazioni in cui non riesce a raggiungere egli stesso il tono ventro-vagale e, di conseguenza, fallisce nel regolare gli stati emotivi del bambino, ritrovandosi poi sopraffatto dai sensi di colpa o a nutrire risentimento e insofferenza verso le reazioni post-traumatiche del figlio che non riesce a gestire. In questi casi, il bambino può sviluppare il PTSD. Se il genitore elaborerà, aiuterà anche il bambino a risolvere il disturbo, altrimenti entrambi i membri della diade attiveranno reciprocamente  l'arousal l'uno dell'altro ed evocheranno la ri-sperimentazione dei sintomi da stress, per cui il PTSD del bambino potrà cronicizzarsi e dar luogo ad altri sintomi e, cosa ancor più grave, si altereranno le precedenti dinamiche relazionali, fino a modificare lo stile di attaccamento del bambino da sicuro a insicuro o disorganizzato.
Nel caso dell'attaccamento insicuro evitante, il genitore può proteggere dalla minaccia fisica, ma subito dopo mostrarsi scarsamente empatico, perciò il bambino tende ad inibire le proprie emozioni post-traumatiche e a gestire da solo i propri vissuti, fino al distacco emotivo, per la convinzione che la richiesta d'aiuto disturbi il genitore, provocando l'allontanamento anziché la prossimità. Questo bambino potrà organizzare le informazioni relative al trauma solo a livello cognitivo e non a livello affettivo.
Nel caso delle diadi insicure ambivalenti, il genitore protegge dalla minaccia fisica, ma subito dopo torna ad essere imprevedibile e incoerente nell'offerta di cura, per cui il bambino tenderà ad esasperare le proprie emozioni post-traumatiche per mantenere la prossimità con il caregiver. Le informazioni non saranno ben organizzate né a livello cognitivo né affettivo.
Quando il caregiver non è presente o quando è egli stesso la fonte di minaccia e pericolo, come nel caso di un genitore maltrattante o dissociato, la strategia comportamentale del sistema d'attaccamento fallisce e viene abbandonata. Se non è possibile mettere in atto la risposta di attacco/fuga, si passa all'immobilità tonica (congelamento), durante la quale il simpatico resta attivo, ma la trasmissione dal cervello al corpo è bloccata, mentre dall'esterno e dal corpo continuano ad arrivare stimoli al cervello, cosicché il bambino continua a provare terror panico, ma è incapace di reagire. Se poi la situazione di minaccia persiste, si passa alla dissociazione, fino alla sincope vagale (finta morte), come possibilità estrema di difesa alla minaccia soverchiante. L'attività cardiaca subisce un rallentamento e la percezione del corpo diminuisce, in modo da produrre un effetto analgesico che riduce la reazione al dolore fisico e, in molti casi, l'accanimento dell'aggressore. In questo stato dissociativo, la corteccia è disconnessa dalle strutture sottocorticali: l'amigdala (che gestisce le emozioni e, soprattutto, la paura) continua a scaricare e non viene inibita dalle funzioni corticali e le informazioni collegate al trauma restano isolate e non integrate con il resto delle esperienze e delle conoscenze.
I genitori maltrattanti e abusanti o dissociati provengono da una storia d'attaccamento disorganizzato, caratterizzato da lutti o abusi non elaborati in loro e, nell'accudire il figlio, risultano quindi spaventati/spaventanti poiché, nello stesso momento in cui un evento traumatico accade e attiva il sistema di attaccamento nel figlio, il pianto e l'angoscia del bambino riattivano le loro esperienze traumatiche non elaborate o dissociate, nonché il loro sistema di attaccamento disorganizzato. Il bambino si trova di fronte ad un genitore che viene travolto da emozioni proprie che non sa gestire e che non è, pertanto, in grado di offrirgli un contenimento affettivo, né una vera e propria protezione, fino al caso estremo del genitore maltrattante. Nel bambino si genera un conflitto senza soluzione, una paura nella paura, una paura "senza sbocco".

Il trattamento del PTSD in età evolutiva

L'obiettivo da raggiungere nella psicoterapia del PTSD in età evolutiva è garantire al bambino il ritorno ad una sensazione di prevedibilità e sicurezza. Nei bambini più grandi, questo significa riuscire a richiamare, narrare e riconsiderare il trauma e la risoluzione dei sintomi post-traumatici. Sia con il bambino che con i genitori è importante la psico-educazione sugli effetti del trauma e sulla ricaduta delle esperienze stressanti sul funzionamento delle persone esposte ad un evento critico;  compatibilmente con il livello di sviluppo può essere necessario spiegare che prima che si senta di nuovo al sicuro potranno tornare la paura o i brutti pensieri e che si tratta di normali reazioni all'evento che gli è accaduto. Spesso, inoltre, i bambini traumatizzati vanno incontro a difficoltà scolastiche e di socializzazione, per cui può rendersi necessaria anche una consulenza agli insegnanti. La stabilizzazione del paziente e un ambiente sicuro costituiscono i presupposti essenziali per il buon esito della terapia: quando ci si trova di fronte a contesti familiari abusanti e maltrattanti, quindi, il primo passo da effettuare consiste nella presa in carico dell'intero sistema.

Bibliografia
A.R. Verardo - "Il disturbo post-traumatico da stress in età evolutiva: lo stile di attaccamento come fattore di rischio e/o protezione" - Rivista di psicoterapia EMDR, n. 37, Aprile 2019

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4/3/2019

La vergogna, emozione spesso trascurata nel lavoro terapeutico

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In questo articolo vi parlerò della vergogna in quanto emozione spesso trascurata ma che, invece, dovrebbe fare da linea guida nel lavoro terapeutico. Per alcuni pazienti il desiderio di nascondere la vergogna può essere più forte del desiderio di nascondere se stessi (Rycroft, 1970), e da qui il motivo per cui esce poco in terapia.
Iniziamo col dire che la vergogna è un'emozione che implica autocoscienza: non è possibile provarla senza confrontarsi con le proprie azioni, con le proprie convinzioni, con i propri modelli di comportamento. Presuppone infatti un atteggiamento introspettivo tipico dell'uomo. Proprio per questa sua caratteristica, nello sviluppo dell'essere umano, compare tra i 2 e i 3 anni assieme al giudizio di valore.
La vergogna viene percepita a livello fisico con la comparsa di rossore (nelle parti visibili agli altri), tachicardia, caldo o freddo intensi e i tipici atteggiamenti di ripiegamento del corpo, inclinazione del capo in avanti o accasciamento mostrando il ventre, diversione dello sguardo (si distoglie lo sguardo). La percezione di sé è quella di appartenere ad un basso rango sociale e degli altri come superiori: ci si sente come se gli altri potessero leggerci dentro (da cui la voglia di scomparire, nascondersi allo sguardo).
Questa emozione è tipica della sequenza emotiva del sistema motivazionale interpersonale di rango, il quale rappresenta un'alternativa evolutiva ai sistemi rettiliani di predazione, difesa e territorialità, dai quali prende in prestito alcuni comportamenti e sensazioni.
Per comprendere meglio quanto appena scritto, ritengo necessario scrivere di questi sistemi perché diventerà necessario saperli riconoscere nel paziente, da un lato per facilitare il nostro lavoro e dall'altro per aiutarlo a diventarne consapevole.
Partiamo col concetto di "cervello tripartito" (MacLean, 1973): il cervello si può dividere in tre parti sia seguendo lo sviluppo ontogenetico di quest'ultimo, sia seguendo la disposizione delle sue strutture, da quelle più profonde (più antiche) a quelle più superficiali (più recenti). Abbiamo quindi il cervello rettiliano, adibito alla sopravvivenza dell'organismo; il cervello limbico, adibito alle emozioni e alle relazioni sociali; la neocorteccia (il cervello pensante), adibita alla memoria episodica, alla creatività, al linguaggio e a tutte le funzioni cognitive superiori. Questi tre cervelli funzionano in armonia nell'uomo per mezzo della coscienza, in un sistema in cui chi sta sopra gestisce chi sta sotto ma, a causa di nostre esperienze passate, talvolta si assiste ad un vero "colpo di stato" da parte di uno dei tre (eterarchia) che tende a soffocare gli altri e noi, di conseguenza, tendiamo ad avere un'azione rettiliana, emotiva o razionale. Gran parte del lavoro in psicoterapia, pertanto, consiste nell'arrivare alla consapevolezza con conseguente armonizzazione dei livelli che funzionano troppo o troppo poco.

Cervello Rettiliano

E' il più antico e può essere considerato la parte animale più a contatto con gli istinti primordiali e le reazioni autonome di fuga e attacco. Le sensazioni più rettiliane sono quelle legate al respiro, contrazioni muscolari, fisicità dell'esperienza, cuore che batte, sensazioni di caldo/freddo.
I Sistemi Motivazionali Biologici, di cui è responsabile, sono legati alla regolazione delle funzioni vitali:
  • omeostasi dell'organismo (alimentazione, termoregolazione, cicli sonno-veglia)
  • Predazione e/o raccolta di cibo
  • Difesa
  • Esplorazione dell'ambiente
  • Territorialità (difesa del territorio)
  • Riproduzione
E' caratterizzato da memorie procedurali (quindi non sotto il controllo della coscienza) e automatiche.
Il paziente rettiliano ha problemi di territorialità, possessività, aggressività, col cibo, nella sessualità (problemi di competizione, timidezza, paura di combattere); le relazioni sono vissute come amore/eros (amore romantico, passionale, possessivo, fino alla violenza, un amore di conquiste che riduce l'altro a oggetto del proprio piacere e ignora ogni dimensione di sacrificio, di fedeltà e di donazione di sé); ha mappe del territorio rigide con comportamenti stereotipati e ritualistici e difficoltà ad uscire dalla zona sicura; ha problemi legati alla sopravvivenza da attacco del predatore (impotenza, rassegnazione); infine, presenta un attaccamento disorganizzato.

Cervello Limbico

E' la sede delle emozioni, è la parte più "calda" e può essere considerata la sede delle nostre parti infantili.
Le motivazioni del cervello limbico sono relative alle interazioni fra conspecifici (Sistemi Motivazionali Interpersonali) ed operano al di fuori della coscienza.
I Sistemi Motivazionali Interpersonali di cui è responsabile sono:
  • Sistema di Attaccamento che permette la sopravvivenza degli esseri viventi attraverso il legame affettivo e la coesione sociale
  • Sistema di Accudimento che permette di prendersi cura dei conspecifici
  • Sistema di Rango che permetta la formazione di una gerarchia nel gruppo per chi ha accesso prima a risorse limitate
  • Sistema di formazione della coppia sessuale
  • Sistema cooperativo per effetto del quale più individui si coalizzano al fine di ottenere qualcosa da condividere
Esso è inoltre caratterizzato da memorie episodiche.
Il paziente limbico è attento alle emozioni che sperimenta quando presta attenzione a qualcosa, è infantile e fa frequentemente richieste (fatica nel raggiungere lo stato di calma e nell'esplorare), è affettivo, materno, compassionevole (vive problemi nel farsi carico dei problemi altrui); è interessato alle relazioni sentimentali, che vive come amore/mania (simbiosi e alti livelli di dipendenza); è competitivo (vive problemi con i ruoli di dominanza/sottomissione); è disposto a cooperare (evidenzia problemi tra pariteticità e relazioni gerarchiche) e presenta un attaccamento ambivalente.

Neocorteccia

La neocorteccia è quella parte del cervello che è sede del linguaggio e di quei comportamenti basati sul problem solving, che ci permettono di affrontare situazioni nuove e di prevedere il futuro. Essa ha il compito di creare connessioni tra fenomeni che ci accadono, determinandone le cause in funzione delle conoscenze soggettive. Vi hanno sede le più importanti e complesse funzioni cognitive: la memoria, la coscienza di sé, la concezione di causalità, la capacità di fare previsioni, il giudizio morale. E' inoltre responsabile dello sviluppo dell'intersoggettività e della costruzione di significati. Può essere considerata la nostra parte adulta: quella che dovrebbe comprendere e filtrare gli altri due cervelli per decidere.
Il paziente corteccia è razionale, freddo, tende alla distanza, arrogante, convinto di sapere, stanco di prendersi responsabilità. Le relazioni sentimentali sono improntate ad amore/ludus (alti livelli di idealizzazione, poca intimità, freddezza, dovuto più ad imposizione della volontà che non a slancio). Presenta un attaccamento evitante.

La Coscienza

Conferisce armonia alla persona integrando le informazioni, i ricordi e le istanze dei tre livelli dell'architettura cerebrale. Viene identificata nell'Io, ci consente di avere un'idea unitaria e continua di noi e del mondo, è alla base del concetto di identità attraverso il tempo. essa ha anche il difficile ruolo di assumersi la responsabilità e indirizza la volontà verso un'azione consapevole.
Il paziente coscienzoso può acquisire e utilizzare nuovi comportamenti e nuove esperienze. Le relazioni sentimentali sono investite di amore autentico: eros (passione) e agape (amore disinteressato), con alti livelli d'intimità, passione e impegno. Si prende cura di se stesso. Ha un attaccamento sicuro.

Entriamo ora più nello specifico parlando dei tre sistemi motivazionali biologici da cui si sviluppa il sistema motivazionale interpersonale di rango del quale la vergogna è una delle emozioni: il sistema predatorio, il sistema di difesa e il sistema territoriale.
  1. Il Sistema Predatorio ha come meta l'aggressione finalizzata al procacciamento del cibo; è attivato dalla fame mentre si disattiva raggiunta la sazietà. I comportamenti tipici sono quelli dell'appostamento, agguato, inseguimento caratterizzati da bramosia e attacco, ferimento letale e  consumazione, tutti atteggiamenti caratterizzati da piacevole eccitamento.
  2. Il Sistema di Difesa ha come meta la conservazione della propria incolumità; è attivato dalla percezione di una minaccia (attacco di un predatore), di stimoli dolorosi o blocco del movimento; si disattiva con la percezione di cessato pericolo. I comportamenti tipici sono quelli di immobilizzazione con allarme vigile, a cui seguono attacco con rabbia distruttiva o fuga con paura. Se queste due risposte non sono possibili, si ha la finta morte con emozione d'impotenza estrema.
  3. Il Sistema Territoriale ha come meta la delimitazione di uno spazio privilegiato dove vivere; si attiva quando viene invaso il territorio e si disattiva quando l'intruso abbandona il territorio. I comportamenti tipici sono presi in prestito dal sistema di difesa.
Il sistema di rango si sviluppa con il cervello limbico, cooptando (prendendo in prestito) il sistema di difesa ed è utilizzato nella dimensione sociale dell'aggressività ritualizzata finalizzata a definire il rango di dominanza/sottomissione nel gruppo dei conspecifici. In particolare si osserva l'attacco del vincitore che non arriva all'uccisione dello sconfitto per l'intervento del disprezzo (analogamente al disgusto, da cui deriva, che ci impedisce di mangiare cibo avariato), ma si condivide il territorio con diversi gradi di vicinanza reciproca stabiliti dal livello di rango, e la fuga dello sconfitto attraverso i segnali di resa (capo chinato, esposizione dell'addome, alzando le mani). La vergogna compare proprio per accompagnare la risposta di sottomissione.
Il sistema di rango ha come meta la definizione del rango di dominanza o sottomissione; è attivato dalla percezione di risorse limitate accessibili ad uno solo degli interagenti, da segnali mimici di sfida, nell'uomo da ridicolizzazione, colpevolizzazione o giudizio (quando si stabiliscono meriti o demeriti, si danno consigli) e si disattiva in seguito a segnali di resa o per l'attivazione di un altro sistema motivazionale (sessuale, accudimento o cooperazione). I comportamenti sono quelli dell'aggressività ritualizzata. La sequenza emotiva tipica parte da collera da sfida, dopodiché può comparire paura delle maggiori capacità agonistiche dell'altro, il quale, invece, prova orgoglio: l'orgoglio di uno porta alla resa dell'altro con conseguente vergogna e umiliazione. I segnali di resa fanno si che il vincitore disprezzi il perdente che prova tristezza da sconfitta e il vincitore si sente superiore, mentre il perdente prova invidia nei sui confronti (funzionale al raccogliere le forze, migliorarsi e programmare una nuova sfida). Importante è sapere che, a volte, si fugge dalla vergogna distanziandosi dall'immagine di sé umiliata, perciò alla vergogna si sostituisce di nuovo la collera da sfida.
Si prova vergogna e umiliazione anche nei traumi dell'attaccamento, o in seguito all'attivazione del rango (derisione, rifiuto, disprezzo, minimizzazione), anziché dell'accudimento, o come conseguenza della mancata "connessione emotiva" (Shore, 1997): anche semplici rimproveri, più o meno severi, inducono la vergogna nel bambino per la disapprovazione del genitore. Se il genitore non ripara l'esperienza recuperando la relazione, ascoltando il figlio, empatizzando con lui, manifestando attenzione e calore, comunicando in modo adeguato, il bambino non si sentirà più amabile e accettabile, valido e competente, forte e capace. Un'altra situazione chiave per lo sviluppo della vergogna si verifica quando il rango coopta l'accudimento: il genitore tende ad usare il ruolo di dominanza, al quale è asservita la cura, per cui la meta è stabilire la gerarchia. Il messaggio è: "io ti aiuterò, a patto che tu scelga quello che dico io". Una sua variante è: "ti voglio bene perché mia hai fatto fare bella figura", "se sei bravo, allora sei degno del mio amore e mi prendo cura di te".
Esiste anche un tipo di vergogna, chiamata vergogna esterna, provata, non per qualcosa che riguarda un giudizio su di noi, ma un giudizio su qualcosa di esterno a noi che ci fa apparire inferiori in qualcosa. Esempi sono: vergognarsi di come sono persone a noi care (in situazioni sociali, per il lavoro che svolgono, per il livello di cultura, ecc.), vergognarsi della nostra posizione economica, ci si può vergognare (o sentirsi in colpa se si immagina il dispiacere dell'altro di sapere ciò che pensiamo di lui) di vergognarsi di qualcuno e così via.
Essenziale, nel lavoro terapeutico, è indagare tutte queste possibili situazioni per poi lavorarci assieme al paziente in modo cooperativo evitando di ricadere nei sistemi di rango o accudimento.

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1/10/2018

Disturbo da stress post-traumatico (ptsd): visione sistemica e staging del disturbo

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Con questo articolo vorrei parlarvi di due concetti inerenti il Disturbo da Stress Post-Traumatico (per chi non sapesse di cosa si tratti, rimando alla pagina del sito dove ne sono riportate le caratteristiche: PTSD) da tenere in considerazione quando si vuole lavorare con questa problematica.
Innanzitutto il concetto di PTSD come "malattia sistemica" e non più soltanto disturbo afferente la sfera psicologica. La definizione che l'Organizzazione Mondiale della Sanità dà di malattia è questa: "il fallimento da parte dei meccanismi adattivi di un organismo che non riesce a reagire adeguatamente, normalmente o in maniera appropriata agli stimoli e agli stress cui l'organismo stesso è soggetto, e che produce un disturbo del funzionamento o della struttura di talune parti dell'organismo stesso." In più, sistemico sta ad indicare che influenza l'intero corpo e non un singolo organo o parte di esso (es. influenza, ipertensione, diabete, ecc.). A questo punto perché considerare il PTSD un disturbo sistemico? Per tre ragioni importanti:
  • è stato associato a probabilità molto maggiori di avere certe patologie somatiche
  • i sintomi somatici costituiscono parte integrante del disturbo
  • il disturbo è sostenuto dalla disregolazione sistemica delle funzioni autonomica e immunitaria.
Riguardo il primo punto, un serie di ricerche tra il 2014 e il 2016 rivela che, rispetto alla popolazione generale, chi soffre di PTSD ha una più alta probabilità di avere sindrome metabolica (38,7% - Rosenbaum, 2015), ipertensione (76,9% - Summer, 2016), iperglicemia (36,1% - Vaccario, 2014). Inoltre, è stato associato a probabilità molto maggiore di sviluppare asma, sindrome da affaticamento cronico, artrite reumatoide, fibromialgia, emicrania e mal di testa cronico, malattie cardiovascolari, malattie gastrointestinali, epilessia e disturbi renali e auto-immuni (McLeay, 2017).
I sintomi somatici sono spesso i primi a comparire e sono parte integrante del disturbo, ma sono altresì quelli che più facilmente vengono ignorati: si parla a tal proposito di disturbi del tratto gastrointestinale (colon irritabile su tutti), disturbi algici (mal di schiena cronico, mal di testa) e malattie cardiovascolari (ipertensione, irritabilità cardiaca).
Infine, il disturbo è sostenuto da una disregolazione del sistema nervoso autonomo a seguito di una sensibilizzazione dello stesso a eventi potenzialmente stressanti. Infatti il trauma può sensibilizzare i circuiti neurali, fino a generare cambiamenti elettrofisiologici a livello cerebrale, come la diminuzione permanente della soglia di eccitabilità. Queste modificazioni portano poi l'individuo a reagire in maniera eccessiva a eventi successivi al trauma, anche potenzialmente meno stressanti (comprese le successive memorie traumatiche intrusive), così da provocare un aumentato iperarousal se riattivati ripetutamente; gli stessi sistemi neurobiologici sensibilizzati, pertanto, non sono in grado di tornare alla situazione omeostatica (equilibrio) di partenza (McFarlane, 2010).
Sensibilizzazione
Sensibilizzazione
PTSD
Da quanto detto precedentemente, prendersi cura della parte somatica del disturbo è essenziale e non opzionale: prescrivere, e non consigliare, ai nostri pazienti attività fisica (almeno 150 minuti di attività aerobica a settimana), alimentazione corretta e prevenzione medica è imprescindibile.

Secondo concetto fondamentale, che dovrebbe tradursi in una pratica clinica pre-trattamento, è lo staging del disturbo. Lo staging è conseguente ad una visione longitudinale del disturbo che non rimane mai uguale a sé stesso col passare del tempo, a causa della biologia che cambia i fenotipi (il modo in cui si presenta) che devono essere gestiti nel trattamento sono molteplici.
  • Fase 0: esposizione al trauma, asintomatica, ma a rischio.
  • Fase 1a: sintomi indifferenziati di sofferenza (somatica), ansia lieve e irritabilità.
  • Fase 1b: sofferenza sottosoglia (3 criteri su 4 necessari soddisfatti) con parziale declino comportamentale e funzionale.
  • Fase 2: primo episodio di sintomi soglia completi (4 criteri su 4).
  • Fase 3: sintomi persistenti che possono fluttuare con menomazione continua.
  • Fase 4: malattia grave senza remissione con incremento di cronicità.
Qual è l'utilità clinica di questa visione/metodologia? Non farci sottovalutate le fasi 0 e 1a che spesso vengono minimizzate e non trattate; portarci a differenziare il trattamento secondo la fase in cui si trova il paziente; considerare la tempistica fondamentale: prima agiamo e meno complicazioni dovremo affrontare e si riduce il rischio cronicità; non farci dimenticare la fase 0 anche se è asintomatica: le ricerche dimostrano che la maggioranza di persone che sviluppa PTSD non ha sofferto di Disturbo Acuto da Stress dopo il trauma (quindi sono quelle che l'hanno gestito meglio) (Bryant, 2012). In conclusione, una sofferenza acuta grave rappresenta l'eccezione mentre il progressivo aumento dei sintomi (anche oltre l'anno dall'evento) è molto comune (Bryant, 2015). 

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18/6/2018

Principali categorie di psicofarmaci e loro uso in abbinamento alla psicoterapia

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Prima di vedere come questi farmaci possano essere utilizzati come aiuto in particolari momenti di una psicoterapia, vediamo di conoscerli un po' meglio.
Con il termine generico di psicofarmaci vengono intesi tutti quei principi attivi che agiscono a livello del Sistema Nervoso Centrale (SNC), che aumentano o diminuiscono il rilascio di particolari neurotrasmettitori. Le principali categorie di psicofarmaci sono quattro:
  • Ansiolitici
  • Sedativi Ipnotici
  • Antidepressivi
  • Antipsicotici o Neurolettici
L'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha pubblicato sul suo sito (Maggio 2018) uno studio sul consumo degli psicofarmaci (antidepressivi, antipsicotici e ansiolitici) nel triennio 2015 - 2016 - 2017, da cui emerge che il trend d'impiego è pressoché stabile. In particolare, tra il 2015 e il 2017, per quanto riguarda gli antidepressivi, i consumi si attestano su una media di 40 dosi giornaliere ogni 1000 abitanti (vuol dire che ogni giorno 1000 abitanti consumano in media 40 dosi di antidepressivi). Per gli antipsicotici si parla di 9 dosi giornaliere ogni 1000 abitanti mentre per gli ansiolitici si registra un lieve aumento nel 2017 con una media di 50 dosi giornaliere ogni 1000 abitanti (AIFA, 2018).

ANSIOLITICI

I farmaci ansiolitici trovano impiego nel trattamento dei disturbi d'ansia di vario genere. Poiché si ritiene che i disturbi ansiosi siano legati a neurotrasmettitori quali l'acido γ-amminobutirrico (GABA), la serotonina e la noradrenalina, i farmaci ansiolitici vanno ad agire a livello dei sopracitati neurotrasmettitori.
Gli ansiolitici a loro volta si dividono in:
  1. BENZODIAZEPINE: sono farmaci ampiamente utilizzati per il trattamento dell'ansia ed esplicano la loro attività attraverso il potenziamento del segnale del GABA. Quest'ultimo è il neurotrasmettitore inibitorio più importante del SNC per cui l'aumento della trasmissione GABAergica, indotta dalle benzodiasepine, risulta molto efficace per contrastare i disturbi ansiosi. Fra le varie benzodiazepine più utilizzate ricordiamo il Diazepam (Valium®), l'Alprazolam (Xanax®) e il Lorazepam (Tavor®).
  2. AGONISTI PARZIALI DEI RECETTORI PER LA SEROTONINA: effettuano la loro azione svolgendo un'azione agonistica (si legano prima) parziale nei confronti dei recettori per la serotonina 5-HT1A. A differenza delle benzodiazepine non provocano sedazione o possibili disturbi del movimento. Di contro possono dare effetti collaterali come nausea, mal di testa, vertigini. Fra i principi attivi più importanti troviamo il Buspirone (Axoren® o Buspar®) e l'Ipsapirone.
  3. BETA-BLOCCANTI: non vengono utilizzati per il trattamento dell'ansia in sé, quanto per diminuirne i sintomi come tachicardia, tremori e palpitazioni. Fra i principi attivi più conosciuti troviamo il propranololo (Inderal®). Sono più utilizzati per altri disturbi non legati all'ansia come profilassi post infartuale, controllo dell'ipertensione arteriosa, controllo delle aritmie cardiache e profilassi dell'emicrania.
  4. ANTIEPILETTICI: in particolare il Pregabalin (Lyrica®) è utilizzato, oltre che come antiepilettico e per il trattamento del dolore neuropatico centrale o periferico, per trattare il disturbo da ansia generalizzato. La sua struttura chimica somiglia molto al GABA, perciò svolge la sua azione legandosi ai canali del calcio voltaggio dipendenti.

SEDATIVI IPNOTICI

I sedativi ipnotici sono una particolare classe di psicofarmaci impiegata nel trattamento dell'insonnia. Per questo motivi vengono chiamati "farmaci per dormire" o sonniferi. Generalmente, gli effetti terapeutici dei sedativi ipnotici sono dose-dipendenti, cioè dipendono dalla quantità di farmaco somministrato: a basse dosi, i sedativi ipnotici inducono sedazione; a dosi maggiori, provocano ipnosi (cioè sonno).
Si dividono in:
  1. BENZODIAZEPINE: in questo caso vengono scelti principi attivi a maggior effetto ipnoinducente come il Lorazepam (Tavor®), il Flurazepam (Flunox® o Dalmadorm®), il Triazolam (Halcion® o Songar®), il Lormetazepam (Minias®), il Clonazepam (Rivotril®), che viene utilizzato per il trattamento dell'epilessia ma off-label per il trattamento dell'ansia, e il Bromazepam (Lexotan®).
  2. Z DRUGS: come lo Zolpidem (Stilnox®), lo Zopiclone (Imovane®) e lo Zaleplon (Sonata®).
  3. BARBITURICI: sono stati i primi sedativi ipnotici ad essere impiegati ma, per il loro ristretto indice terapeutico e per la loro tossicità, si preferiscono le benzodiazepine. Oggi trovano maggior impiego come antiepilettici o anestetici.
In qualsiasi caso, tutti gli psicofarmaci sopra citati sono in grado di esercitare la loro attività sedativo-ipnotica attraverso il potenziamento del segnale dell'acido γ-amminobutirrico, quindi attraverso l'incremento della trasmissione GABAergica.

ANTIDEPRESSIVI


Gli antidepressivi sono psicofarmaci largamente impiegati nel trattamento dei disturbi dell'umore, quali la depressione e il disturbo bipolare, ma non solo. Infatti, questi principi attivi vengono utilizzati anche nel trattamento di altri disturbi e patologie, come il dolore neuropatico, i disturbi ossessivo-compulsivi e i disturbi d'ansia.
Gli psicofarmaci ad azione antidepressiva esplicano la loro attività sostanzialmente attraverso la modulazione della neurotrasmissione serotoninergica, noradrenergica e dopaminergica. Più precisamente, gli antidepressivi aumentano il segnale di questi neurotrasmettitori.
Gli antidepressivi possono essere classificati in funzione della struttura chimica e del loro meccanismo d'azione.
  1. ANTIDEPRESSIVI TRICICLICI (TCA): sono i primi ad essere stati scoperti ma oggi vengono poco usati a causa dei molti effetti collaterali. Infatti, i TCA, oltre ad aumentare la trasmissione noradrenergica e serotoninergica, agiscono anche a livello di altri siti recettoriali, provocando così effetti indesiderati di vario genere, alcuni dei quali anche gravi. Principi attivi di questa categoria sono la Clomipramina (Anafranil®) e l'Amitriptilina (Laroxil®).
  2. INIBITORI SELETTIVI DELLA RICPTAZIONE DELLA SEROTONINA (SSRI): questi psicofarmaci potenziano in maniera selettiva il segnale del neurotrasmettitore serotonina. A questo gruppo appartengono principi attivi come la Fluoxetina (Prozac®), la Sertralina (Zoloft®), la Paroxetina (Sereupin® o Seroxat®), l'Escitalopram (Cipralex®) e la Fluvoxamina (Fevarin®). Inoltre, alcuni di questi principi attivi si sono mostrati particolarmente utili anche nel trattamento di alcune forme d'ansia, del disturbo ossessivo compulsivo e della bulimia nervosa (per quest'ultima in particolare la Fluoxetina).
  3. INIBITORI DELLA RICAPTAZIONE DELLA SEROTONINA E NORADRENALINA (SNRI): hanno un meccanismo di azione multiplo come i triciclici, inibiscono in modo bilanciato la ricaptazione dei recettori della serotonina e noradrenalina. I principi attivi più utilizzati sono la Venlafaxina (Efexor® o Zarelis®) e la Duloxetina (Cymbalta® o Xeristar®). Hanno azione anche sui disturbi d'ansia.
  4. INIBITORI DELLA RICAPTAZIONE DELLA DOPAMINA E NORADRENALINA (DNRI): gli antidepressivi appartenenti a questo gruppo potenziano soprattutto la trasmissione dopaminergica e, in misura inferiore, anche quella noradrenergica. Fra questi principi attivi, ricordiamo il Bupropione (Elontril®), quest'ultimo è utilizzato anche per la disassuefazione da fumo.
  5. INIBITORI SELETTIVI DELLA RICAPTAZIONE DELLA NORADRENALINA (NARI): i principi attivi appartenenti a questo gruppo aumentano selettivamente la neurotrasmissione noradrenergica. Fra questi ricordiamo la Reboxetina (Edronax®).
  6. MODULATORI DELLA TRASMISSIONE NORADRENERGICA E SEROTONINERGICA (NASSA): questo tipo di psicofarmaci esplica la sua azione antidepressiva aumentando il segnale di noradrenalina e serotonina attraverso l'interazione con specifici recettori per questi due tipi di neurotrasmettitori. Fra i principi attivi appartenenti a questo gruppo ricordiamo la Mirtazapina (Remeron®).
  7. INIBITORI DELLE MONOAMMINO OSSIDASI DI TIPO A (IMAO-A): questi antidepressivi aumentano il segnale delle monoamine (serotonina, noradrenalina, dopamina) inibendo gli enzimi deputati al loro metabolismo. Appartengono a questo gruppo la Fenelzina (Margyl®) e la Moclobemide (Manerix®).
  8. STABILIZZATORI DELL'UMORE: questo particolare gruppo di psicofarmaci, cui appartiene il Litio carbonato (Carbolithium®) o il Valproato (Depakin®), trovano impiego nel trattamento del disturbo bipolare stabilizzando la fase maniacale.

ANTIPSICOTICI o NEUROLETTICI

Gli antipsicotici (o neurolettici) sono psicofarmaci impiegati nel trattamento delle diverse forme di psicosi, come, ad esempio, la schizofrenia, i disturbi schizofreniformi, i disturbi deliranti o i disturbi psicotici indotti da sostanze. La maggior parte dei farmaci antipsicotici agisce diminuendo la trasmissione dopaminergica e aumentando quella serotoninergica. Infatti, si ritiene che i disturbi psicotici possano essere causati da un eccessivo segnale della dopamina, cui può associarsi un deficit di serotonina. Generalmente, gli antipsicotici hanno un effetto calmante e antiallucinatorio, e stabilizzano l'umore nei pazienti affetti da psicosi.
Gli antipsicotici possono essere classificati in funzione della loro struttura chimica:
  1. FENOTIAZINE: cui appartengono principi attivi come la Perfenazina (Trilafon®) e la Clorpromazina (Largactil®). Questi psicofarmaci esplicano la loro azione antipsicotica attraverso l'antagonizzazione dei recettori dopaminergici D2.
  2. BUTIRROFENONI: sono in grado di antagonizzare i recettori D2 e possiedono una certa affinità anche per i recettori 5-HT2 della serotonina. Appartengono a questo gruppo principi attivi come l'Aloperidolo (Serenase®) e lo Spiperone.
  3. DERIVATI BENZAMMIDICI: come la Sulpiride (Equilid® o Championyl®). Questi principi attivi esercitano un'azione antagonista nei confronti dei recettori D2 per la dopamina.
  4. DERIVATI BENZAZEPINICI: come la Clozapina (Leponex®), la Quetiapina (Seroquel®) e l'Olanzapina (Zyprexa®), che esercitano la loro azione antipsicotica attraverso l'antagonismo nei confronti dei recettori sia D2 che 5-HT2.

Terminata la presentazione di questi farmaci, che tanto spaventano le persone al solo sentirli nominare, vediamo di sfatare alcuni miti, di capire come si usano e quello che possono fare nel trattare un disturbo psicologico.
Innanzitutto, prima credenza errata è che questi farmaci possano fare una specie di "lavaggio del cervello", far cambiare personalità alle persone o renderle "zombi". Le prime due credenze sono semplicemente errate perché gli psicofarmaci non hanno effetto diretto sul pensiero: gli psicofarmaci agiscono sull'emotività riportandola a livelli tollerabili/normali, così come le sensazioni fisiche legate ad essa: che poi questo possa influire anche sul nostro modo di vedere le cose o sul comportamento, può esserne una conseguenza ma non un effetto diretto del farmaco, è una cosa che decidiamo noi. Sul fatto di rendere "zombi", se accade è perché sono dosati male (non dev'essere l'azione voluta del farmaco) o purtroppo un effetto collaterale degli antipsicotici di vecchia generazione dopo anni di somministrazione. Un'altra informazione che si sente spesso è che creino dipendenza e assuefazione: ciò è vero per gli ansiolitici, ma questa categoria di farmaci andrebbe assunta per periodi limitati di tempo o al bisogno; nel caso serva un'azione più lunga, conviene assumere un antidepressivo (SSRI), che non dà questi effetti. Convinzione sugli antidepressivi è che facciano ingrassare: per alcuni è vero ma per altri no (come l'escitalopram). La Fluoxetina, inizialmente, riduce addirittura l'appetito. Tante delle persone che ingrassano non realizzano che non è un effetto diretto del farmaco antidepressivo, ma del fatto che iniziano a stare bene. Molte persone depresse non si rendono conto o, se se ne rendono conto, sottovalutano, la componente ansiosa che spesso è associata alla depressione. Molti ricevono infatti diagnosi di sindrome mista ansioso-depressiva. La componente ansiosa è associata all'attivazione del Sistema Nervoso Simpatico che è accompagnata dalla parte catabolica del metabolismo: bruciamo energia per la reazione d'allarme iniziale e per mantenere la fase di resistenza (alla minaccia) poi. Quando l'antidepressivo inizia ad agire sull'ansia abbassandola, si disattiva la reazione difensiva, e con essa il Sistema Nervoso Simpatico e la parte catabolica del metabolismo. Di fatto non consumiamo più energia come prima ed inizia addirittura la fase anabolica del metabolismo, associata spesso ad un aumento dell'appetito, ovvero quella che serve per ricostruire ciò che abbiamo consumato nella fase catabolica, con conseguente aumento del peso, finché il metabolismo non si riassesta (per una spiegazione più approfondita leggi questo articolo sulla componente neurobiologica della depressione). Così come, a volte, si sente dai media che qualcuno si è suicidato a seguito dell'assunzione di antidepressivi. Ciò può avvenire se chi li prescrive non indaga bene la storia (precedenti atti autolesivi) e il disturbo della persona che ha di fronte, per esempio, non facendo domande relativi a pensieri autolesivi. Bisogna raccogliere queste informazioni perché il primo effetto dell'antidepressivo è ridare energia alla persona e, solo successivamente, agisce sull'umore: va da sé che, ridare energia ad una persona che come progetto ha quello di suicidarsi, non è esattamente funzionale, se non in regime di ricovero o sotto stretta sorveglianza.
Per quanto riguarda il loro utilizzo, è da precisare che gli psicofarmaci hanno un effetto sintomatologico: il loro beneficio si ha fintantoché si assumono, ma non curano il disturbo, ed è qui che interviene la psicoterapia (che invece incide sul disturbo). Tanti fanno l'errore di sospendere i farmaci appena stanno meglio, non capendo che stanno bene proprio perché li assumono, non perché hanno curato il disturbo. La guarigione avviene a seguito di modificazioni importanti nel modo di pensare e interpretare il mondo che ci circonda (relazioni, lavoro, impegni, ecc.), e questo non avviene per mezzo di un farmaco ma attraverso un percorso mirato di psicoterapia. Quindi, la domanda che ci potremmo porre ora è: meglio gli psicofarmaci o la psicoterapia? A mio avviso, gli psicofarmaci dovrebbero essere d'appoggio alla psicoterapia quando necessario (fatta eccezione per alcuni disturbi cronici come possono essere le psicosi o il disturbo bipolare, per i quali i farmaci sono assolutamente necessari). Nel caso in cui la sintomatologia vada a compromettere in modo significativo il funzionamento della persona e/o la fruibilità del lavoro svolto, l’assunzione di psicofarmaci può essere una valida stampella in attesa degli effetti del percorso in svolgimento.

N.B. Cortesemente non inviate commenti chiedendo consigli farmacologici, non verranno accettati: non sono un medico per cui non ho conoscenze sufficienti per poterne dare, e comunque non ne darei senza valutare di persona il paziente. Rivolgetevi al medico di famiglia o ad un medico psichiatra. Grazie.

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5/3/2018

Differenze tra psicoterapia e trattamento medico

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Quali sono le differenze (e somiglianze) tra una psicoterapia e un qualunque trattamento medico? Ho pensato di scrivere un post su questo argomento in quanto molti pazienti che giungono nel mio studio non hanno ben chiara questa differenza che è invece basilare. Proverò a calarmi nei panni di una persona che non è né psicoterapeuta né medico, pertanto cercherò di usare i termini più semplici possibile per spiegare le ragioni per cui i due approcci sono fondamentalmente molto diversi.
Un primo motivo di confusione è sicuramente dato dal fatto che, di fronte ad un disagio psicologico, proviamo una sofferenza così come quando abbiamo un problema di natura strettamente medico e, in effetti, tale disagio può essere trattato, in alcuni casi, farmacologicamente. La sofferenza provata tende a confondere la natura dei due dolori, fisico e psicologico; quindi, seguendo la consuetudine, ci si aspetta il medesimo trattamento.
Inoltre, le attese del paziente spesso si fondano sulla familiarità e conoscenza che generalmente ha con l'approccio medico: quante volte nella nostra vita siamo stati da un medico rispetto che da uno psicoterapeuta? Quante volte anche in presenza di un disagio psicologico ci rivolgiamo per primo al medico di famiglia? Quanto è più facile trovare sui media e sui giornali argomenti che trattano di medicina piuttosto che di psicologia?
Per questi, e sicuramente altri motivi (che potete aggiungere nei commenti, se volete), chi si presenta dallo psicoterapeuta, in maniera più o meno consapevole, si aspetta un trattamento che somiglia ad un approccio medico.
Iniziamo ad entrare in argomento con una somiglianza: tutti e due gli approcci prevedono una fase iniziale di diagnosi cioè capire quale sia il problema portato dal paziente ma, da questa somiglianza, nascono le prime differenze. Sia il medico che lo psicoterapeuta partono dapprima con domande per cercare di definire meglio il disagio: quali sono le manifestazioni (sintomi), quando è iniziato, se è la prima volta o ce ne sono state altre, ecc.  Ma ecco che subentra la prima differenza di non poco conto: se il medico ha dubbi può "osservare" direttamente il problema toccando la parte, auscultando, richiedendo esami più o meno approfonditi che, nella maggior parte dei casi, danno una chiara indicazione per quella che sarà la successiva terapia. Ma lo psicoterapeuta? Questa possibilità non ce l'ha, ed in più si deve basare sulle parole di una persona che non è un esperto del settore, con tutte le difficoltà del caso: mancanza di terminologia, ad esempio, spesso vengono usate parole come sofferenza, disagio, fastidio ma che per uno psicoterapeuta vogliono dire tutto e niente; altre volte, inizialmente, si parla di ansia e poi si scopre che è rabbia; frequentemente si parla di un disagio e magari lo si descrive minuziosamente, ma poi si scopre che il reale problema è un altro (come se ci si concentrasse sulla tosse ignorando la bronchite che è il vero problema da trattare). Per questo motivo, già la fase di diagnosi è più complicata e non è mai definitiva, ma in continua evoluzione mano a mano che si procede col lavoro. In alcuni casi è anche necessario "allenare" il paziente ad ascoltarsi meglio per poter essere più preciso o fornire una psicoeducazione adeguata per costruire un linguaggio condiviso.
Successivamente alla fase di diagnosi, inizia il trattamento: e qui ci troviamo a fronteggiare la differenza più importante. Una terapia medica prevede un farmaco o un trattamento che hanno una loro efficacia di per sé, basta assumerli o aderire al trattamento perché facciano effetto indipendentemente dal fatto che il paziente creda o meno nella cura prescritta; l'impegno richiesto è essenzialmente ricordarsi di prendere una terapia o sottoporsi ad un trattamento/intervento, dopodiché la responsabilità non è più dell'interessato. In più, la relazione col paziente non è fondamentale ai fini del risultato (anche se è dimostrato che per alcuni trattamenti facilita o addirittura ne migliora l'efficacia): il farmaco o l'intervento fanno effetto indipendentemente dal rapporto che si ha con il medico.
In psicoterapia non è così: innanzitutto una buona e sana relazione con il terapeuta è già una parte importante della cura (considerando che la maggior parte dei problemi, al di là dei sintomi, è causata da una passata relazione disfunzionale con le figure di attaccamento primarie), ma, tale relazione, va costruita con il tempo, poiché non è presente immediatamente e ci possono essere difficoltà nel crearla, proprio per la natura del disagio di chi chiede aiuto. Già da qui si capisce che è richiesto un impegno molto più attivo perché è necessario mettersi in gioco come persona in toto. La seconda problematica deriva dal fatto che il paziente non si rende conto subito dell'importanza di questo strumento di cura per cui rimane concentrato sui sintomi (che "non sono il problema"); ma anche lavorando sui sintomi è necessario un impegno: qualunque tecnica utilizzata non funziona di per sé, richiede impegno, fiducia nel fatto che possa funzionare (e quindi insistere anche se inizialmente non dà gli effetti sperati), va "tarata" sulla persona (e non esistono tabelle di riferimento con parametri oggettivi come per i farmaci) considerando che siamo tutti diversi e quindi anche questo richiede tempo. E se poi durante il lavoro emerge altro, visto che non abbiamo gli strumenti iniziali per "osservare" direttamente il problema? Chiaramente il tutto si complica, può essere necessario cambiare strada, fare dei passi indietro e ricominciare o ritarare il processo.
Altra differenza che può spiazzare è l'andamento della "guarigione": nei trattamenti medici siamo abituati ad osservare un miglioramento lineare e relativamente rapido, al massimo qualche stop; in psicoterapia il percorso è più ondulante; è possibile avvertire momenti di peggioramento a livello sintomatico e di sofferenza, che addirittura sono auspicati come indice del fatto che il percorso sta funzionando, e spesso non si è preparati/abituati ad un eventuale andamento alterno. Ciò accade perché nel modello medico la sintomatologia è legata in modo molto più stretto al disturbo per cui risulta più semplice pensare che la cura funzioni tanto più quanto più i sintomi diminuiscono; in psicoterapia, usare la stessa modalità di misurazione può essere fuorviante in quanto ci possono essere passi importanti verso la risoluzione del problema, i quali però non incidono subito in maniera significativa sui sintomi.
​Da quanto descritto poc'anzi, frequentemente le persone che giungono in psicoterapia si aspettano una diagnosi più o meno rapida ma, soprattutto, una "ricetta" da seguire che faccia effetto immediatamente; altri considerano presentarsi alla seduta come la cura per cui basta andare che poi ci pensa il terapeuta a guarirli. In pratica, i pazienti sono motivati alla psicoterapia ma non al cambiamento; si aspettano di guarire senza cambiare, senza mettersi in gioco attivamente quando i sintomi derivano da stili di pensiero o modalità di comportamento disfunzionali che è necessario modificare. Lo psicoterapeuta può accompagnare in questo percorso di scoperta, può fornire gli strumenti per leggersi dentro e può aiutare nel processo di cambiamento laddove ci siano difficoltà, ma poi spetta all'individuo  guardarsi dentro per fornire le informazioni necessarie su cui riflettere (il terapeuta non legge nella mente, non può conoscere ciò che non viene detto) e l'impegno verso il cambiamento (il terapeuta non può cambiare ciò che non vogliamo cambiare e non può toglierci la fatica o il disagio iniziale dello sperimentare modalità nuove, o di entrare in contatto con esperienze spiacevoli della nostra vita). 

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8/1/2018

Stili Emotivi neurobiologici

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Tutti noi abbiamo stili emozionali diversi che si basano su un continuum di sei circuiti cerebrali specifici; la combinazione dei sei punti, relativi ai sei circuiti cerebrali, determina il nostro stile emotivo: il modo in cui reagiamo e gestiamo le emozioni.
​Vediamo ora di descrivere quali sono questi circuiti e come ci si può lavorare in terapia.

Resilienza
La resilienza determina la velocità di recupero dopo un'avversità ed è determinata dall'attività della corteccia prefrontale sinistra che inibisce l'Amigdala.
​Le persone con una bassa resilienza hanno anche una finestra di tolleranza alle emozioni molto ridotta, che si traduce nel fatto che basta uno stimolo di minor intensità per farle uscire sopra o sotto i limiti di tale finestra di tolleranza.
​Chiaramente, il lavoro con questi pazienti sarà quello di ampliare tale finestra, soprattutto il limite superiore.

Prospettiva
E' la capacità di mantenere le emozioni positive ed è regolata dall'attività del nucleo Accumbens, supportato dalla corteccia prefrontale, che contiene i neuroni che rilasciano dopamina e oppioidi endogeni.
​Le persone con bassa prospettiva sentono le emozioni positive come gli altri ma non riescono a mantenerle nel tempo.
​Lavorare su questo circuito prevede di stare sugli eventi positivi e sulle risorse personali, facendo attenzione a collegare le emozioni positive con tutti gli organizzatori emozionali: sensazioni, percezione dei 5 sensi, movimento, emozione, immagine e idea positiva di sè.

Intuito Sociale
​L'intuito sociale consiste nella capacità di cogliere i segnali sociali ed è sostenuto dal giro Fusiforme (coinvolto nel riconoscimento delle emozioni sul volto delle persone) che inibisce l'Amigdala.
​L'intuito sociale è associato con la focalizzazione dello sguardo sugli occhi dell'altro nell'interazione sociale.
​Il lavoro sarà quello di lavorare sul mantenimento dello sguardo sugli occhi dell'altro durante le interazioni sociali,  di rinforzare il ricordo di "buoni sguardi" e di imparare ad esprimere gratitudine alle persone guardandole negli occhi.

Autoconsapevolezza
​Riguarda la consapevolezza dei segnali fisiologici delle emozioni riconoscendo il loro significato affettivo (non solo come "sintomi"). Una maggiore auto-consapevolezza corrisponde a livelli più alti di attivazione dell'Insula, che riceve segnali dai visceri. L'insula è situata tra i lobi frontali e temporali e contiene la "mappa viscerale" del corpo.
​Nel lavoro clinico è importante aumentare l'auto-consapevolezza come risorsa, soprattutto con coloro che spesso riportano di non sentire nulla, che dentro di loro non accade nulla mentre raccontano episodi capitati loro. Il primo step è passare dal "Non sento nulla" al "Sento il silenzio sensoriale": il corpo mette in pausa quando ha bisogno di proteggersi o riposarsi. Poi si esplora il "Silenzio sensoriale": a cosa assomiglia? Ad uno stato di rilassamento, di tranquilla, neutralità? oppure di "congelamento"? o è opprimente? Se ci fosse qualcosa, cosa vorrebbe provare al posto del silenzio?

Sensibilità al contesto
​Si riferisce al grado di sensibilità verso i segnali del contesto sociale. Una bassa sensibilità è associata alla difficoltà di regolare le emozioni nel contesto sociale. L'Ippocampo è noto per il suo apporto nell'elaborazione dei ricordi ed ha un ruolo chiave nella percezione dell'ambiente e per una più sviluppata capacità di adattare il comportamento al contesto.
La sensibilità al contesto, inoltre, aumenta con la stima in se stessi, la percezione dei 5 sensi e con la diminuzione dei comportamenti ruminativi.
​Il lavoro riguarda le risorse sociali, promuovendo l'osservazione empatica degli altri, ovvero aiutare la persona a riconoscere le qualità di cui ha bisogno negli altri e ad identificarsi con gli altri, "sentendo" quella qualità dentro di sè. 

Attenzione
​E' un circuito che prevede il passaggio da un'attenzione selettiva ad una aperta e viceversa. L'attenzione selettiva è la capacità di focalizzare la mente sull'oggetto dell'attenzione senza esser distratto da stimoli emozionali. Essa è associata ad una più elevata sincronia di fase della corteccia prefrontale verso gli stimoli esterni.
L'attenzione aperta, invece, è la capacità di rimanere recettivi a quello che viene sperimentato mentre si mantiene la posizione dell' "osservatore", senza essere alterato dalle emozioni. Essa è associata ad una bassa sincronia di fase della corteccia prefrontale verso gli stimoli esterni.
​Entrambe i tipi di attenzione sono utili ed entrambi vanno sviluppati quando carenti. Per lavorare sull'attenzione selettiva bisogna sviluppare risorse come l'ascolto del respiro, la percezione dei 5 sensi e sviluppare la capacità di scomporre le esperienze nei loro specifici componenti: immagine, emozione, sensazioni corporee, idea di sè. Per l'attenzione aperta è utile sottolineare spesso l'utilità della "posizione dell'osservatore" non giudicante di sé stessi, sviluppando curiosità verso ciò che accade dentro di noi. Per aumentare entrambe risulta efficacie lavorare su tutte le forme di evitamento che ci disconnettono dalla realtà.

Bibliografia
​R.J. Davidson - "La vita emotiva del cervello" - Ponte alla Grazie

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20/9/2017

Inquadramento neurobiologico della Depressione

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La Depressione è un disturbo molto vario e complesso difficile da spiegare in un modo univoco anche a partire dalla stessa sintomatologia. La concettualizzazione di cui volevo parlare oggi è quella neurobiologica ma, per farlo, devo primo descrivere alcuni processi fisiologici importanti: il bilanciamento autonomico e la risposta di emergenza ad un evento.

Bilanciamento Autonomico e reazione d'emergenza
Bilanciamento Autonomico
Il Sistema Nervoso Autonomo (SNA) è costituito di due rami in relazione stretta tra di loro: il Sistema Nervoso Simpatico (SNS) e il Sistema Nervoso Parasimpatico (SNP).
Il SNS ha un funzionamento catabolico per cui brucia energie e risorse mentre il SNP ha un funzionamento anabolico che permette la formazione di risorse energetiche e la riparazione di eventuali danni avvenuti durante la fase catabolica. Questi due sistemi si alternano durante la giornata e durante ogni singolo processo ritmico (come per esempio la respirazione), determinando quelli che sono i bioritmi naturali.
Cosa accade, però, se un evento turba l'equilibrio (bomba nell'immagine)? Si ha quella che viene chiamata reazione allo stress e che ora vedremo, con particolare attenzione alla fase 1 - 2: la reazione d'allarme.
Nella fase di allarme, il Sistema Limbico viene stimolato e ciò produce tre risposte importanti: l'Amigdala attiva il sistema di sopravvivenza (bloccando la corteccia frontale e quindi il "ragionamento"), lanciando l'allarme; l'Ipotalamo dà il via alla risposta del sistema autonomico (SNS), e il Talamo chiude il "cancello" degli input sensoriali, evitando la percezione del dolore (e del corpo). Quest'ultimo processo è responsabile della dissociazione peritraumatica e, in alcuni casi, della dissociazione patologica traumatica.
Nella fase 2 - 3 abbiamo la resistenza allo stress durante la quale è massiccia l'attività del SNS, che prepara l'individuo e l'organismo a fronteggiare il pericolo: midriasi pupillare (le pupille si dilatano); sudorazione profusa; riduzione di secrezioni nasali, lacrimali e salivari; aumento della frequenza cardiaca e respiratoria (fame d'aria); dilatazione bronchiale; diminuzione della secrezione gastrica e della peristalsi intestinale; vasocostrizione periferica (freddo a mani e piedi); dilatazione sfinterica; aumento della contrazione muscolare (fino a tremori diffusi); attivazione del sistema immunitario che dà il via alla risposta infiammatoria (in caso di eventuali ferite).
La fase 3 - 4 è la prima fase di recupero dopo lo stress ad opera del SNP con anabolismo ad azione trofica (recupero delle energie): le pupille si stringono, le secrezioni nasali, lacrimali e salivari aumentano, la frequenza cardiaca e respiratoria si abbassa (sbadigli), aumenta la secrezione gastrica e la peristalsi intestinale (nausea, vomito), i bronchi si stringono (tosse), i vasi periferici si dilatano (mal di testa e/o formicolio alle estremità), gli sfinteri si stringono, ma  vi è rilassamento muscolare.
A questa fase segue un picco simpaticotono su base adrenergica (4 - 5) e poi un secondo rapido ritorno del SNP (5 - 6) con anabolismo di recupero morfologico (vengono riparati i tessuti danneggiati).
La reazione d'emergenza termina con il ritorno alla normale attività di alternanza fisiologica tra SNS e SNP (6 - 7 - 8).
Cosa importante da sapere è che SNS e SNP hanno un'attivazione ad "altalena" per cui più intensa è la risposta Simpatica, più intensa e duratura sarà la risposta Parasimpatica a fine stress.

A cosa servono queste informazioni ai fini dell'inquadramento della depressione? La risposta a questa domanda prevede di considerare la depressione divisa in due fasi: la fase pre-depressiva e la fase depressiva vera e propria.

Fase Pre-Depressiva
Si può considerare questa fase, più o meno lunga (a volte mesi, a volte anni), come una fase di resistenza (a cosa? Alla depressione vera e propria), e quindi stress, in cui prevalgono le risposte di attacco fuga (SNS) in un crescente sforzo per continuare ad essere come prima o per corrispondere ad un ideale di sé stessi irraggiungibile. In questa fase aumentano ansia legata a sensazione d'inadeguatezza e senso di colpa ed autosvalutazione nei fallimenti;  si inizia, inoltre, a sentire la pressione della tristezza.
La risposta autonomica è caratterizzata da alta frequenza cardiaca, pressione arteriosa e glicemia alta, tensione muscolare a testa, collo e spalle, facilità di iperventilazione (che aumenta ansia, vertigini e parestesie), difficoltà digestive (per mancanza di secrezioni gastriche), stitichezza con occasionali episodi di diarrea, alterazioni del sonno (inizialmente frequenti risvegli poi difficoltà ad addormentarsi), infiammazione sotto soglia.

Fase Depressiva vera e propria
Ci si entra a seguito della caduta in ipoarousal (SNP) quando la resistenza si spezza. E' caratterizzata da perdita di motivazione, energie e piacere. Aumenta la sensazione d'impotenza e d'inaiutabilità.
La risposta autonomica è caratterizzata da difficoltà digestive per eccesso di secrezioni gastriche (acidità e reflusso gastrico), diarrea con occasionale stitichezza, disturbi del sonno (risvegli precoci, difficoltà ad alzarsi, umore peggiore al mattino), infiammazione (che a sua volta peggiora l'umore fisiologicamente).

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