In questo articolo vi parlerò della vergogna in quanto emozione spesso trascurata ma che, invece, dovrebbe fare da linea guida nel lavoro terapeutico. Per alcuni pazienti il desiderio di nascondere la vergogna può essere più forte del desiderio di nascondere se stessi (Rycroft, 1970), e da qui il motivo per cui esce poco in terapia.
Iniziamo col dire che la vergogna è un'emozione che implica autocoscienza: non è possibile provarla senza confrontarsi con le proprie azioni, con le proprie convinzioni, con i propri modelli di comportamento. Presuppone infatti un atteggiamento introspettivo tipico dell'uomo. Proprio per questa sua caratteristica, nello sviluppo dell'essere umano, compare tra i 2 e i 3 anni assieme al giudizio di valore. La vergogna viene percepita a livello fisico con la comparsa di rossore (nelle parti visibili agli altri), tachicardia, caldo o freddo intensi e i tipici atteggiamenti di ripiegamento del corpo, inclinazione del capo in avanti o accasciamento mostrando il ventre, diversione dello sguardo (si distoglie lo sguardo). La percezione di sé è quella di appartenere ad un basso rango sociale e degli altri come superiori: ci si sente come se gli altri potessero leggerci dentro (da cui la voglia di scomparire, nascondersi allo sguardo). Questa emozione è tipica della sequenza emotiva del sistema motivazionale interpersonale di rango, il quale rappresenta un'alternativa evolutiva ai sistemi rettiliani di predazione, difesa e territorialità, dai quali prende in prestito alcuni comportamenti e sensazioni. Per comprendere meglio quanto appena scritto, ritengo necessario scrivere di questi sistemi perché diventerà necessario saperli riconoscere nel paziente, da un lato per facilitare il nostro lavoro e dall'altro per aiutarlo a diventarne consapevole. Partiamo col concetto di "cervello tripartito" (MacLean, 1973): il cervello si può dividere in tre parti sia seguendo lo sviluppo ontogenetico di quest'ultimo, sia seguendo la disposizione delle sue strutture, da quelle più profonde (più antiche) a quelle più superficiali (più recenti). Abbiamo quindi il cervello rettiliano, adibito alla sopravvivenza dell'organismo; il cervello limbico, adibito alle emozioni e alle relazioni sociali; la neocorteccia (il cervello pensante), adibita alla memoria episodica, alla creatività, al linguaggio e a tutte le funzioni cognitive superiori. Questi tre cervelli funzionano in armonia nell'uomo per mezzo della coscienza, in un sistema in cui chi sta sopra gestisce chi sta sotto ma, a causa di nostre esperienze passate, talvolta si assiste ad un vero "colpo di stato" da parte di uno dei tre (eterarchia) che tende a soffocare gli altri e noi, di conseguenza, tendiamo ad avere un'azione rettiliana, emotiva o razionale. Gran parte del lavoro in psicoterapia, pertanto, consiste nell'arrivare alla consapevolezza con conseguente armonizzazione dei livelli che funzionano troppo o troppo poco. Cervello Rettiliano E' il più antico e può essere considerato la parte animale più a contatto con gli istinti primordiali e le reazioni autonome di fuga e attacco. Le sensazioni più rettiliane sono quelle legate al respiro, contrazioni muscolari, fisicità dell'esperienza, cuore che batte, sensazioni di caldo/freddo. I Sistemi Motivazionali Biologici, di cui è responsabile, sono legati alla regolazione delle funzioni vitali:
Il paziente rettiliano ha problemi di territorialità, possessività, aggressività, col cibo, nella sessualità (problemi di competizione, timidezza, paura di combattere); le relazioni sono vissute come amore/eros (amore romantico, passionale, possessivo, fino alla violenza, un amore di conquiste che riduce l'altro a oggetto del proprio piacere e ignora ogni dimensione di sacrificio, di fedeltà e di donazione di sé); ha mappe del territorio rigide con comportamenti stereotipati e ritualistici e difficoltà ad uscire dalla zona sicura; ha problemi legati alla sopravvivenza da attacco del predatore (impotenza, rassegnazione); infine, presenta un attaccamento disorganizzato. Cervello Limbico E' la sede delle emozioni, è la parte più "calda" e può essere considerata la sede delle nostre parti infantili. Le motivazioni del cervello limbico sono relative alle interazioni fra conspecifici (Sistemi Motivazionali Interpersonali) ed operano al di fuori della coscienza. I Sistemi Motivazionali Interpersonali di cui è responsabile sono:
Il paziente limbico è attento alle emozioni che sperimenta quando presta attenzione a qualcosa, è infantile e fa frequentemente richieste (fatica nel raggiungere lo stato di calma e nell'esplorare), è affettivo, materno, compassionevole (vive problemi nel farsi carico dei problemi altrui); è interessato alle relazioni sentimentali, che vive come amore/mania (simbiosi e alti livelli di dipendenza); è competitivo (vive problemi con i ruoli di dominanza/sottomissione); è disposto a cooperare (evidenzia problemi tra pariteticità e relazioni gerarchiche) e presenta un attaccamento ambivalente. Neocorteccia La neocorteccia è quella parte del cervello che è sede del linguaggio e di quei comportamenti basati sul problem solving, che ci permettono di affrontare situazioni nuove e di prevedere il futuro. Essa ha il compito di creare connessioni tra fenomeni che ci accadono, determinandone le cause in funzione delle conoscenze soggettive. Vi hanno sede le più importanti e complesse funzioni cognitive: la memoria, la coscienza di sé, la concezione di causalità, la capacità di fare previsioni, il giudizio morale. E' inoltre responsabile dello sviluppo dell'intersoggettività e della costruzione di significati. Può essere considerata la nostra parte adulta: quella che dovrebbe comprendere e filtrare gli altri due cervelli per decidere. Il paziente corteccia è razionale, freddo, tende alla distanza, arrogante, convinto di sapere, stanco di prendersi responsabilità. Le relazioni sentimentali sono improntate ad amore/ludus (alti livelli di idealizzazione, poca intimità, freddezza, dovuto più ad imposizione della volontà che non a slancio). Presenta un attaccamento evitante. La Coscienza Conferisce armonia alla persona integrando le informazioni, i ricordi e le istanze dei tre livelli dell'architettura cerebrale. Viene identificata nell'Io, ci consente di avere un'idea unitaria e continua di noi e del mondo, è alla base del concetto di identità attraverso il tempo. essa ha anche il difficile ruolo di assumersi la responsabilità e indirizza la volontà verso un'azione consapevole. Il paziente coscienzoso può acquisire e utilizzare nuovi comportamenti e nuove esperienze. Le relazioni sentimentali sono investite di amore autentico: eros (passione) e agape (amore disinteressato), con alti livelli d'intimità, passione e impegno. Si prende cura di se stesso. Ha un attaccamento sicuro. Entriamo ora più nello specifico parlando dei tre sistemi motivazionali biologici da cui si sviluppa il sistema motivazionale interpersonale di rango del quale la vergogna è una delle emozioni: il sistema predatorio, il sistema di difesa e il sistema territoriale.
Il sistema di rango ha come meta la definizione del rango di dominanza o sottomissione; è attivato dalla percezione di risorse limitate accessibili ad uno solo degli interagenti, da segnali mimici di sfida, nell'uomo da ridicolizzazione, colpevolizzazione o giudizio (quando si stabiliscono meriti o demeriti, si danno consigli) e si disattiva in seguito a segnali di resa o per l'attivazione di un altro sistema motivazionale (sessuale, accudimento o cooperazione). I comportamenti sono quelli dell'aggressività ritualizzata. La sequenza emotiva tipica parte da collera da sfida, dopodiché può comparire paura delle maggiori capacità agonistiche dell'altro, il quale, invece, prova orgoglio: l'orgoglio di uno porta alla resa dell'altro con conseguente vergogna e umiliazione. I segnali di resa fanno si che il vincitore disprezzi il perdente che prova tristezza da sconfitta e il vincitore si sente superiore, mentre il perdente prova invidia nei sui confronti (funzionale al raccogliere le forze, migliorarsi e programmare una nuova sfida). Importante è sapere che, a volte, si fugge dalla vergogna distanziandosi dall'immagine di sé umiliata, perciò alla vergogna si sostituisce di nuovo la collera da sfida. Si prova vergogna e umiliazione anche nei traumi dell'attaccamento, o in seguito all'attivazione del rango (derisione, rifiuto, disprezzo, minimizzazione), anziché dell'accudimento, o come conseguenza della mancata "connessione emotiva" (Shore, 1997): anche semplici rimproveri, più o meno severi, inducono la vergogna nel bambino per la disapprovazione del genitore. Se il genitore non ripara l'esperienza recuperando la relazione, ascoltando il figlio, empatizzando con lui, manifestando attenzione e calore, comunicando in modo adeguato, il bambino non si sentirà più amabile e accettabile, valido e competente, forte e capace. Un'altra situazione chiave per lo sviluppo della vergogna si verifica quando il rango coopta l'accudimento: il genitore tende ad usare il ruolo di dominanza, al quale è asservita la cura, per cui la meta è stabilire la gerarchia. Il messaggio è: "io ti aiuterò, a patto che tu scelga quello che dico io". Una sua variante è: "ti voglio bene perché mia hai fatto fare bella figura", "se sei bravo, allora sei degno del mio amore e mi prendo cura di te". Esiste anche un tipo di vergogna, chiamata vergogna esterna, provata, non per qualcosa che riguarda un giudizio su di noi, ma un giudizio su qualcosa di esterno a noi che ci fa apparire inferiori in qualcosa. Esempi sono: vergognarsi di come sono persone a noi care (in situazioni sociali, per il lavoro che svolgono, per il livello di cultura, ecc.), vergognarsi della nostra posizione economica, ci si può vergognare (o sentirsi in colpa se si immagina il dispiacere dell'altro di sapere ciò che pensiamo di lui) di vergognarsi di qualcuno e così via. Essenziale, nel lavoro terapeutico, è indagare tutte queste possibili situazioni per poi lavorarci assieme al paziente in modo cooperativo evitando di ricadere nei sistemi di rango o accudimento.
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1/10/2018 Disturbo da stress post-traumatico (ptsd): visione sistemica e staging del disturboRead NowCon questo articolo vorrei parlarvi di due concetti inerenti il Disturbo da Stress Post-Traumatico (per chi non sapesse di cosa si tratti, rimando alla pagina del sito dove ne sono riportate le caratteristiche: PTSD) da tenere in considerazione quando si vuole lavorare con questa problematica. Innanzitutto il concetto di PTSD come "malattia sistemica" e non più soltanto disturbo afferente la sfera psicologica. La definizione che l'Organizzazione Mondiale della Sanità dà di malattia è questa: "il fallimento da parte dei meccanismi adattivi di un organismo che non riesce a reagire adeguatamente, normalmente o in maniera appropriata agli stimoli e agli stress cui l'organismo stesso è soggetto, e che produce un disturbo del funzionamento o della struttura di talune parti dell'organismo stesso." In più, sistemico sta ad indicare che influenza l'intero corpo e non un singolo organo o parte di esso (es. influenza, ipertensione, diabete, ecc.). A questo punto perché considerare il PTSD un disturbo sistemico? Per tre ragioni importanti:
I sintomi somatici sono spesso i primi a comparire e sono parte integrante del disturbo, ma sono altresì quelli che più facilmente vengono ignorati: si parla a tal proposito di disturbi del tratto gastrointestinale (colon irritabile su tutti), disturbi algici (mal di schiena cronico, mal di testa) e malattie cardiovascolari (ipertensione, irritabilità cardiaca). Infine, il disturbo è sostenuto da una disregolazione del sistema nervoso autonomo a seguito di una sensibilizzazione dello stesso a eventi potenzialmente stressanti. Infatti il trauma può sensibilizzare i circuiti neurali, fino a generare cambiamenti elettrofisiologici a livello cerebrale, come la diminuzione permanente della soglia di eccitabilità. Queste modificazioni portano poi l'individuo a reagire in maniera eccessiva a eventi successivi al trauma, anche potenzialmente meno stressanti (comprese le successive memorie traumatiche intrusive), così da provocare un aumentato iperarousal se riattivati ripetutamente; gli stessi sistemi neurobiologici sensibilizzati, pertanto, non sono in grado di tornare alla situazione omeostatica (equilibrio) di partenza (McFarlane, 2010). Da quanto detto precedentemente, prendersi cura della parte somatica del disturbo è essenziale e non opzionale: prescrivere, e non consigliare, ai nostri pazienti attività fisica (almeno 150 minuti di attività aerobica a settimana), alimentazione corretta e prevenzione medica è imprescindibile.
Secondo concetto fondamentale, che dovrebbe tradursi in una pratica clinica pre-trattamento, è lo staging del disturbo. Lo staging è conseguente ad una visione longitudinale del disturbo che non rimane mai uguale a sé stesso col passare del tempo, a causa della biologia che cambia i fenotipi (il modo in cui si presenta) che devono essere gestiti nel trattamento sono molteplici.
Lo stile di accudimento genitoriale (come un genitore gestisce la sofferenza del figlio) influenza cosa apprenderà il figlio su se stesso e sugli altri, e come si prenderà cura di sé, quindi che persona diventerà da adulto.
Vediamolo ora attraverso quattro esempi. Immaginatevi quattro bambini che si fanno male (ma potrebbe essere anche un disagio psicologico: una preoccupazione, un momento di tristezza, ecc.) e ognuno di loro, per questo, torna a casa. Ecco che cosa imparano su se stessi e sugli altri in base alla risposta dei genitori. Susanna ha cinque anni, cade, si sbuccia un ginocchio, torna a casa a piangere. Sua mamma la guarda in modo molto amorevole e le dice: “Oh poverina ti sei fatta male! Fa male, vero? Vieni qui, ora ti pulisco la ferita: fa male, lo so”; quindi prende un cerotto oppure soffia un po' sulla ferita, tutte cose che i genitori di solito fanno. Dopo un po' la bambina si annoierà sicuramente e ritornerà fuori a giocare. Se la mamma dovesse chiederle: “Ti fa ancora male il ginocchio?”, probabilmente risponderebbe “No, no” mentre sta correndo fuori dalla porta. Quindi Susanna ha imparato che le sue emozioni e i suoi bisogni sono importanti, che quello che prova è importante per la mamma e anche per gli altri, e quando si sentirà male esprimerà i suoi sentimenti in modo genuino e libero. Passiamo al secondo bambino. Mario va a casa e sua mamma sta cucinando. La mamma continua a lavorare con un’espressione del viso tra il sono molto stanca e l'assente. Probabilmente Mario ha già visto quel viso e quella espressione molte volte prima, quindi dice: “Ok, sono caduto ma non ho niente”. La mamma continua con le sue faccende e poi gli risponde : “Ok, vai a lavarti, è l'ora di cena”. Mario impara a non riconoscere le sue emozioni e a non dar loro importanza; quando si sente giù, non si dà neanche il tempo di capire che cosa sta provando davvero, e impara che non si può sentire male, non può sentirsi giù perché gli altri non se ne interessano e non vuole farli preoccupare. Mario impara anche, e questa è l'altra faccia della medaglia, che non è in grado di riconoscere le emozioni degli altri: se non è in grado di riconoscere le sue, non può riconoscere neanche quelle degli altri. Per tanto, quando gli altri si sentono male, si distanzia dalla situazione e si focalizza su se stesso. Potrebbe sembrare un atteggiamento un po' egoista, ma semplicemente, a volte, è quello che le persone imparano con genitori di questo tipo. Terzo caso. Laura corre a casa, sta piangendo mentre la mamma è già uscita per cercarla. La mamma ha sentito che la bambina stava piangendo, sentiva anche delle urla e ha capito che era successo qualcosa di grave, quindi è uscita per cercarla. Quando la vede è così ansiosa che la prende per un braccio e le urla: “Non ti ho detto mille volte di stare attenta?! Mi è quasi venuto un infarto per colpa tua! Forza, andiamo a casa!”. Chiaramente Laura è mortificata e continua a piangere. Una volta che la mamma si calma, perché non è successo niente di grave, le dice semplicemente: “Non piangere, non è successo nulla. Dai, non piangere più che ti fa solo brutta”. Che cosa impara Laura? Che le sue emozioni travolgono gli altri, travolgono sia lei sia gli altri e si sente in colpa per il fatto di essere così (perché preoccupa gli altri, li fa star male), indipendentemente dall'emozione. Ci vuole molto tempo affinché possa sentirsi meglio, poiché non sa cosa fare con le sue emozioni. Cerca disperatamente gli altri, ma in realtà anche se rispondono alla sua richiesta non riesce a calmarsi; a volte si arrabbia addirittura con loro quando cercano di aiutarla. Per quanto riguarda gli altri, quello che impara è che le emozioni degli altri la travolgono, non sa come relazionarsi con loro di fronte a situazioni difficili: quando le persone stanno male, pensa che sia colpa loro, e quando gli altri non si calmano in fretta, diventa ansiosa o addirittura si arrabbia. L'ultimo esempio. Paolo va a fare un giro prima di tornare, non riesce ad andare direttamente a casa perché probabilmente ha paura della reazione dei genitori: si è spaventato molto per la caduta e non riesce a smettere di piangere. Alla fine va a casa e, quando arriva, la mamma gli grida: “Smettila di piangere o ti darò io una buona ragione per farlo! Cadi sempre, sei così stupido, devi stare più attento”. Naturalmente Paolo non si calma e continua a piangere. Arriva suo papà che gli dà una sberla; il bambino cade per il colpo e il papà gli urla: “Ne vuoi ancora?”, quindi lui si congela e smette di piangere. Che cosa impara Paolo? Che mostrare le sue emozioni è davvero pericoloso, impara che, se chiede aiuto, potrebbe farsi male, e impara che si merita ciò che gli sta accadendo: è colpa mia se sono così. Come difesa cosa penserà? Che non capisce le emozioni o i loro usi, che di fatto sono inutili. Penserà che le persone che stanno male in realtà siano deboli, disprezzerà la debolezza, la vulnerabilità e la paura. Penserà di non aver bisogno di nessuno e di non provare niente. Se abbiamo dei genitori focalizzati sui propri bisogni (secondo esempio), e quindi non prestano attenzione al bambino o non importa loro, oppure sono malati o stanno facendo qualcos'altro, i figli penseranno che le emozioni e i loro bisogni non sono importanti, l'atteggiamento difensivo del bambino sarà: focalizzarsi solo su se stesso, le emozioni e i bisogni delle altre persone, in realtà, non sono importanti, o quanto meno non gli interessano. Se abbiamo dei genitori molto critici (terzo esempio), avremo un adulto che se la prende con se stesso quando si sente giù, e sarà molto critico nei confronti di se stesso. Le difese saranno essere molto critico nei confronti degli altri e dare la colpa agli altri per tutto quello che succede. Se invece abbiamo dei genitori soverchiati dal disagio del bambino (terzo esempio), da adulto questo non saprà cosa fare del suo disagio, diventerà ansioso e disperato quando si sentirà male. Nella fase della difesa non sopporterà quando gli altri si sentono male, penserà che siano deboli e li disprezzerà. Se abbiamo un ambiente caotico ed eccessivamente punitivo (quarto esempio), avremo un adulto con dei comportamenti molto rigidi e che improvvisamente può perdere il controllo. Le difese saranno: non seguire le regole, ne ha ricevute talmente tante che adesso non ne vuole seguire nessuna, oppure, punire gli altri come hanno fatto con lui. E voi? Che bambino pensate di essere? Il nostro comportamento è influenzato dalla nostra fisiologia e viceversa. In particolare il nostro comportamento, durante il trauma, è influenzato dal Sistema Nervoso Autonomo (SNA) che è implicato nelle nostre strategie di difesa. Riflettiamo su questo punto: se, in presenza di un'esperienza difficile, il nostro SNA ha funzionato, cioè se ci siamo difesi in modo appropriato, non c'è stato trauma. C'è stata, solo, un'esperienza difficile con cui siamo stati capaci di confrontarci e che probabilmente ci ha lasciato delle Risorse.
Vista l'implicazione del SNA con l'esperienza traumatica, credo che, quando lavoriamo sul trauma, dovremmo abituarci ad avvalerci di una doppia valutazione del nostro paziente. Da una parte dovremmo tenere la sua storia, la concettualizzazione del caso, la diagnosi nosografica, dall'altra parte, invece, dovremmo imparare a tener conto della mappa delle reazioni del SNA del nostro paziente, abituandoci ad indagare accuratamente sul suo stato di regolazione. Infatti, in un continuum che va dallo stato di massimo ipoarousal sperimentato come mancanza di coscienza, vomito, mancanza di controllo degli sfinteri e tutte le reazioni che si mettono in atto quando l'azione non è più possibile, allo stato di massima regolazione e benessere, c'è un punto dove il SNA del nostro paziente spesso si è bloccato nel momento del trauma, c'è un punto dove esso tende a stabilizzarsi come stile usuale di arousal. La teoria Polivagale di Porges Secondo Porges il nostro SNA risponde alle sfide adattivamente ed è sempre alla ricerca di sicurezza. A partire da questa ricerca di sicurezza, o meglio, per affinare le strategie di difesa, nel corso della filogenesi, il SNA dei mammiferi superiori e dell'uomo si è complessizzato fino a raggiungere la struttura attuale: Porges individua tre circuiti neurali, corrispondenti a tre fasi di sviluppo, nonché tre strategie di difesa. Il primo e il più antico è il Circuito Dorso Vagale (DV). Questo ramo non mielinizzato del nervo vago, condiviso dalla maggior parte dei vertebrati, causa bradicardia nurogenica e mantiene, nei mammiferi, alcune funzioni connesse con i processi vegetativi. Esso regola gli organi sotto al diaframma. In condizioni di pericolo, la sua attivazione causa immobilizzazione, tipica strategia di difesa dei rettili (dunque immobilizzazione con paura), e ottundimento emotivo. Uno stadio filogenetico successivo ha visto lo sviluppo del Sistema Nervoso Simpatico (SNS), un circuito che governa l'attivazione metabolica, l'aumento del battito cardiaco, la capacità del cuore di contrarsi e l'aumento della frequenza respiratoria necessari per l'attacco-fuga tipica strategia di difesa dei mammiferi. Il Circuito Ventro Vagale (VV), specifico dei mammiferi superiori e dell'uomo si è sviluppato per ultimo. Questo circuito ha un effetto calmante. Ci permette di stare fermi, rilassati, ci permette l'immobilizzazione senza paura. Esso ha due componenti:
L'attivazione di questi tre circuiti dipende dalla condizione di sicurezza-pericolo riscontrata ed è gerarchica (di volta in volta, il circuito più recente tiene a bada quello più antico). In condizioni di sicurezza è attivo il VV che ci da regolazione e ci permette il coinvolgimento sociale. Quando il VV è attivo, il SNS è mantenuto inattivo (freno vagale). In condizioni di pericolo, invece, quando le strategie di confronto relazionale sarebbero maladattive, le strategie di difesa più arcaiche (prima attacco-fuga e poi immobilizzazione) e i circuiti neurali corrispondenti sono attivati in sequenza. Abbiamo visto che il nostro SNA è composto da tre circuiti (VV, SNS, DV) che sono attivati in sequenza. Va aggiunto che i mammiferi sono evoluti per passare rapidamente dal coinvolgimento sociale (VV) alla mobilizzazione (SNS) e viceversa, non appena il pericolo è cessato. Oppure per passare, se questa fallisce, dalla mobilizzazione (SNS) all'immobilizzazione (DV). Non sono evoluti per passare dall'immobilizzazione alla mobilizzazione o dall'immobilizzazione al coinvolgimento sociale. In altre parole il nostro SNA è fatto per una rapida inconsapevole discesa, mentre la risalita non è altrettanto facile. E questo spiega molto della sofferenza dei nostri pazienti. Infatti se essi hanno sperimentato l'attivazione dei livelli bassi del SNA (come in un trauma), essi possono avere grosse difficoltà a riaccedere ai circuiti superiori, cioè a recuperare le loro strategie di difese attive in caso di pericolo, e a tornare allo stato di regolazione e di benessere (VV) quando il pericolo è finito. Fin qui abbiamo parlato esclusivamente dei tre circuiti del SNA e delle tre risposte difensive corrispondenti. Dobbiamo aggiungere, però, che la risposta più comune al trauma, per il mammifero, non è la semplice attivazione DV (immobilità, collasso), ma è il freezing. E il freezing è diverso dal collasso DV (anche se in entrambi c'è l'immobilizzazione). Nel freezing, infatti, c'è contemporaneamente mobilizzazione e immobilizzazione. Per capirci il freezing ce l'ha la gazzella che si blocca immobile col cuore in gola (tensione-immobilizzazione), mentre il topo collassato, in bocca al gatto, è nello stato DV estremo. Nel freezing c'è contemporaneamente attivazione del SNS e del DV. Importanza della sicurezza Per noi mammiferi la possibilità di monitorare la sicurezza, o meglio, la possibilità che il SNA dei mammiferi monitori sicurezza è associata a certe condizioni, che sono più o meno sempre le stesse, e che noi valutiamo, per la maggior parte, inconsapevolmente. La nostra neurocezione (l'attività di valutazione del pericolo da parte del SNA) è estremamente sensibile alla costrizione (sentirsi stretti, intrappolati) e all'isolamento (l'esclusione, l'esser messo da parte). Spesso i pazienti traumatizzati non sanno regolare i confini interpersonali. Un altro elemento essenziale è il contatto col suolo. Il contatto col suolo dà sicurezza, ma molti dei nostri pazienti non hanno un buon grounding. Alcune persone si sentono più sicure sedute in terra. Il rumore è un altro punto essenziale. I pazienti traumatizzati sono ipersensibili ai rumori di fondo e hanno difficoltà a comprendere la voce umana. Può essere utile mettersi d'accordo sul tono di voce che il paziente gradisce di più e, comunque, ricordiamoci che una vocalizzazione modulata ha sull'essere umano un effetto regolante. Difesa contro la riattivazione DV Abbiamo detto prima che la risposta DV non è, per il mammifero, la risposta più comune al trauma. Le risposte DV estreme (rilascio degli sfinteri, vomito, svenimento, ecc.), che sono molto difficili da risolvere, sono, per fortuna, abbastanza rare. Se ci spostiamo sui traumi relazionali precoci, invece, è piuttosto facile trovare reazioni DV, non così estreme, ma non per questo meno insidiose. Situazioni di trascuratezza, di abbandono, di frustrazione inducono facilmente risposte DV. Questi stati DV, anche nelle forme meno estreme, non sono familiari per il mammifero. E' questa la ragione per cui è molto difficile riagganciarli nella processazione. Il paziente non ci vuole andare. Gli stati psicofisiologici passivi: resa, sottomissione, mancanza di speranza, collegati alla percezione di un corpo stanco, assonnato, incapace di reagire, sono vissuti dai pazienti come fallimento, come prova della loro difettosità. Va detto che i pazienti hanno, in qualche modo, ragione. L'attivazione DV è per il mammifero la terza opzione, che si attiva quando le altre due (VV e SNS) sono fallite. Da qui il senso di fallimento associato a queste reazioni. Sebbene associata all'incremento della produzione di oppioidi endogeni, che rendono la persona insensibile al dolore, potremmo suggerire che l'esperienza DV è per il mammifero psicofisiologicamente penosa. Esiste una difesa che i pazienti possono usare per non rientrare in contatto con l'esperienza DV: l'attivazione impropria del SNS adottata come stile usuale di attivazione. Ricordiamo che l'attivazione di questi circuiti è gerarchica, se tengo attivo il SNS tengo a bada quello inferiore, il DV. Il soggetto è in uno stato eccitato, che gira un po' su se stesso, uno stato che si avverte falso. Le emozioni che vi si accompagnano sono emozioni esagerate e autogenerantesi: una rabbia non giustificata dalla situazione, un'allegria tenuta in piedi per forza, un'ansia di fondo ingiustificata. Alla luce di quanto detto sul SNA e sulla difficoltà del mammifero di muoversi negli stati DV, la ragione del mantenimento di questa impropria attivazione del SNS sta nel fatto che, in questo modo, il paziente si mantiene al sicuro dal ritornare in stati DV, che ha sperimentato e che sa essere troppo dolorosi per tornarci. Bibliografia: S. Porges - "La teoria polivagale - Fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell'attaccamento, della comunicazione e dell'autoregolazione" - Fioriti Editore G. Giovanozzi - "Applicazioni cliniche della Teoria Polivagale di Porges all'EMDR" - Rivista di psicoterapia EMDR, n. 30, Settembre 2015 "Il lutto è il processo dell'esperire le reazioni psicologiche, comportamentali, sociali e fisiche legate alla perdita." (Rando, 2014)
Il lutto non consiste solo nel decesso o nella perdita di una persona cara. Infatti, comprende diverse altre situazioni in cui una persona è esposta a cambiamenti o perdite, come il lavoro, divorzi o separazioni, aborti, perdite economiche, pensionamento, trasferimento dalla propria città. Una perdita può essere così devastante (traumatica) da bloccare l'accesso ai ricordi positivi e agli aspetti più importanti che abbiamo vissuto insieme alla persona che abbiamo perso. L'affioramento dei ricordi svolge un ruolo vitale nell'adattamento alla perdita. I ricordi del defunto fungono da ponte essenziale tra il "mondo con" e il "mondo senza" la persona amata e costituiscono i mattoni fondamentali delle rappresentazioni interiori. Per l'elaborazione del lutto è essenziale una rappresentazione interiore adattiva della persona cara. L'attaccamento e i rapporti con le persone care defunte non si perdono, si trasformano. La ricerca indica che le persone, anziché distaccarsi dalla persona cara, trovano un modo di mantenere una sua rappresentazione interiore dinamica e mutevole nel tempo. I ricordi della persona cara che abbiamo perso, ci fanno capire e prendere atto del significato della relazione, del suo ruolo nella nostra vita e nella nostra identità, e ci consentono di portare nel futuro la sicurezza fondamentale di aver amato e di essere stati amati da lui, di aver dato molto e di aver ricevuto. Questi aspetti non si perdono, ma rimangono come una rappresentazione interiore adattiva da portare con noi. Vi sono, però, situazioni caratterizzate da rappresentazioni interiori negative tali da causare disagio. Questo si verifica nelle relazioni complicate da rabbia, ambivalenza, colpa, dipendenza, abuso. Quando tali rappresentazioni interiori suscitano disagio, i traumi, i conflitti e i ricordi negativi devono essere elaborati per portare a una risoluzione del lutto adattiva. Il termine elaborazione del lutto si riferisce agli sforzi di adattamento, attraverso fasi specifiche, che una persona deve compiere per adattarsi alla perdita. Si ha, invece, un lutto complesso, quando si è in presenza di una compromissione, una distorsione o un mancato completamento di una o più delle 6 "R" dell'elaborazione del lutto, tenuto conto del tempo trascorso dal decesso. La perdita traumatica è lo stato di sofferenza per la perdita di una persona cara, quando il lutto per tale perdita è sopraffatto dallo stress traumatico causato dalle sue circostanze. Le 6 "R" dell'elaborazione del lutto L'elaborazione del lutto si svolge in tre fasi: evitamento, confronto emotivo e accomodamento. Il superamento di queste 3 fasi comporta delle tappe prestabilite: le 6 "R" che descriverò di seguito. Nella fase di evitamento il dolente è sopraffatto, incapace di comprendere cosa sia successo, ha un forte desiderio di volersi opporre all'accettazione della morte. E' necessario: Rendersi conto della perdita: prendere atto e comprendere il decesso, superare l'intorpidimento. La fase del confronto emotivo è un intervallo doloroso, momento in cui il dolente si confronta con la perdita e gradualmente ne comprende l'impatto. E' necessario: Reagire alla separazione: esperire il dolore, sentire, identificare, accettare e dare forma espressiva a tutte le reazioni psicologiche alla perdita, identificare e addolorarsi per le perdite secondarie (ciò che si perde in seguito alla perdita primaria. Es. Perdita del padre con conseguente trasferimento e quindi perdita di legami sociali). Rammentare, riesperire il defunto e il rapporto con lui: riesaminare e ricordare in modo realistico (senza idealizzazioni o svalutazioni) la persona, rivivere e riesperire le emozioni legate ai ricordi. Rinunciare ai vecchi attaccamenti al defunto e alle vecchie ipotesi sul mondo. Tipici presupposti sul mondo da rivedere sono: il mondo è benevolo (non mi accadranno cose brutte), il mondo (la vita) è pieno di significati (è controllabile, equo, l'esito è determinato dalla persona) e il sé ha valore (alle persone buone non accadono cose brutte). Durante la fase di accomodamento il dolente progredisce in modo adattivo nel nuovo mondo senza dimenticare il vecchio, è in grado di reinvestire emotivamente. E' necessario: Risolversi a progredire in modo adattivo nel nuovo mondo senza dimenticare il vecchio: rivedere le proprie ipotesi sul mondo, sviluppare un nuovo rapporto con il defunto, adottare nuovi modi di stare al mondo, formarsi una nuova identità. Reinvestire. Riassumendo l'intero processo, per elaborare un lutto è necessario che la persona entri in contatto con le emozioni dolorose, abbia accesso a rappresentazioni positive del defunto e si sappia adattare al nuovo rapporto con lui (attaccamento a una persona viva vs attaccamento a una rappresentazione mentale della persona) e al nuovo mondo senza la persona cara. 12 fattori di rischio nel decesso traumatico
Le persone con disturbo dissociativo complesso hanno un'organizzazione dissociativa della loro personalità che risulta composta da due o più parti dissociative, ciascuna con risposte, sentimenti, pensieri, percezioni, sensazioni fisiche e comportamenti sue proprie e, almeno in parte, differenti. Queste parti (non importa quanto vengano sentite come separate) non sono altre "persone" o "personalità complete", ma piuttosto delle manifestazioni del modo in cui la tua singola personalità è organizzata. La persona è una sola, anche se è comprensibile che non sempre si senta in tal modo.
Sebbene ogni persona possa avere alcuni tratti distintivi delle sue parti dissociative, vi sono alcune tipiche somiglianze in comune nel funzionamento di base delle parti. Quando una persona è stata traumatizzata, la sua personalità si è in genere organizzata in almeno due tipi di parti, basate su funzioni specifiche. Il primo tipo di parte è focalizzato sulla gestione della vita quotidiana e l'evitamento dei ricordi traumatici, mentre il secondo tipo è bloccato nelle esperienze traumatiche passate ed è focalizzato sulla difesa di fronte alla minaccia. La parte della personalità che funziona nella vita quotidiana spesso comprende la porzione maggiore della personalità. Questo tipo di parte di solito evita di avere a che fare con, o persino di riconoscere, altre parti, sebbene ne possa comunque subire l'influenza in vari modi. Questa parte tende a evitare situazioni o esperienze che possano evocare ricordi traumatici. Mentre la parte che affronta la vita di ogni giorno è evitante, almeno un'altra parte, e di solito più di una, resta "incastrata", bloccata nei ricordi traumatici e pensa, sente, percepisce e agisce come se tali eventi fossero ancora in corso o fossero in procinto di accadere nuovamente. Queste parti sono tipicamente bloccate nella ripetizione di comportamenti che sono protettivi in caso di minaccia, anche quando non sono appropriati per il momento presente. Queste parti sono spesso altamente emotive, non molto razionali, limitate nella capacità di pensare e percepire, non orientate nel tempo presente e si sentono sfinite e sopraffatte. Vivono primariamente nel "tempo del trauma". Anche quando le parti sono a conoscenza della loro reciproca esistenza, spesso non sono in accordo tra loro sulle questioni che sono importanti per la persona nel suo complesso. Uno degli obiettivi della terapia è imparare a sviluppare le abilità necessarie per far accordare tra loro le parti. La maggioranza delle parti dissociative influenzano la tua esperienza dall'interno piuttosto che esercitare un completo controllo (come può essere in un DDI). Vi sono diversi tipi caratteristici di parti della personalità che restano bloccate nel tempo del trauma. Queste parti sono rappresentazioni di conflitti ed esperienze abituali che tendono ad essere difficili da integrare. Parti giovani e bambine (parti ferite). Queste parti spesso contengono e trattengono ricordi traumatici, emozioni o sensazioni angosciose, dolorose, ma talvolta hanno anche ricordi positivi. Queste parti esprimono tipicamente sentimenti di desiderio, di solitudine, di dipendenza e di bisogno di consolazione, aiuto e sicurezza insieme a sfiducia e timore del rifiuto e dell'abbandono. E' del tutto naturale e comprensibile che le persone che sono state trascurate o abusate vivano queste esperienze di bisogno. Allo stesso modo è piuttosto comune che altre parti di sé trovino questi normali bisogni ripugnanti o pericolosi, visto che in passato hanno avuto esperienze negative nell'esprimere quello che volevano o di cui avevano bisogno. Perciò alcune parti della personalità rifiutano le parti "bisognose" e ritengono che sia meglio non avere bisogni e contare solo su sé stessi. Questa situazione innesca un tipico conflitto interno tra parti che sono bisognose e parti che provano paura o repulsione per tali bisogni. Parti che imitano le persone che vi hanno fatto del male (parti difensive). Di solito vi sono parti della personalità piene di rabbia e collera che sono difficili da accettare e che vengono vissute da altre parti come terrorizzanti. Queste parti umiliano, minacciano o puniscono altre parti interne oppure possono dirigere la loro rabbia verso altre persone nel mondo esterno. Nonostante il comportamento di queste parti possa essere piuttosto spaventoso e vergognoso, tanto quanto inaccettabile, è importante capire che queste parti hanno delle buone ragioni per esistere. In origine si sono sviluppate per proteggerti, contenendo le molte esperienze angosciose di rabbia, impotenza e talvolta la colpa e la vergogna. Parti che lottano (parti difensive). Alcune parti arrabbiate sono bloccate in una lotta difensiva contro una minaccia. Queste hanno la funzione esplicita di proteggere la persona attraverso risposte combattive verso altre persone o verso parti interne che in qualche modo evocavano minaccia. Le parti combattive spesso ritengono di essere forti, di non essere state ferite e sono capaci di mettere in atto reazioni fortemente aggressive nei confronti di minacce percepite o di comportamenti irrispettosi. Parti che provano vergogna (parti sofferenti). La vergogna è l'emozione principale che mantiene la dissociazione. Alcune parti della personalità sono particolarmente evitate e vituperate perché custodiscono esperienze, sentimenti o comportamenti, che la persona, o alcune parti, ha etichettato come degne di vergogna o disgustose. Sarà necessario essere particolarmente empatici e pieni di accettazione nei confronti di queste parti. Le parti dissociative che funzionano nella vita quotidiana vogliono avere a che fare il meno possibile con le parti dissociative bloccate nelle esperienze traumatiche. Le parti bloccate nel tempo del trauma si sentono spesso abbandonate e trascurate da quelle che cercano di tirare avanti senza di loro nella vita di tutti i giorni. Questi perduranti conflitti interni possono essere dolorosi e terrorizzanti e costano alla persona con disturbi dissociativi un enorme dispendio di energia Come detto in precedenza, tutte le parti hanno bisogno di imparare ad accettare e cooperare tra loro. Bibliografia: S. Boon, K. Steele, O. van der Hart - "La dissociazione traumatica comprenderla e affrontarla" - Mimesis Violenze domestiche possono influenzare i bambini ancora prima della nascita, indica la nuova ricerca della Michigan State University.
Lo studio è il primo a collegare abusi su donne incinta con sintomi traumatici emotivi e comportamentali nei loro figli entro il primo anno di vita. I sintomi includono incubi, facilità allo spavento, disturbo da rumori forti o luci intense, evitamento del contatto fisico e difficoltà nel vivere momenti di gioia. “Per i clinici e le madri, sapere che esperienze prenatali di violenza domestica possono danneggiare direttamente i loro bambini può essere una motivazione forte per aiutarle ad uscire da queste situazioni di abuso,” dice Alytia Levendosky, professore di psicologia e coautore dello studio. Lo studio di 182 madri di età compresa tra 18 e 34 anni dimostra una sorprendente e forte relazione tra un abuso prenatale della madre da un partner maschile e sintomi traumatici postnatali nei loro figli. I ricercatori hanno esaminato lo stile genitoriale delle donne e hanno tenuto conto anche di fattori di rischio quali uso di droghe e altri eventi di vita negativi, stato civile, età e reddito. La Levendosky afferma che gli abusi prenatali possono causare cambiamenti nel sistema di risposta allo stress della madre, aumentando i livelli dell’ormone cortisolo, che a sua volta aumenta il livello di cortisolo nel feto. “Il cortisolo è neurotossico e può avere effetti dannosi sul cervello quando la sua quantità raggiunge livelli eccessivi,” ha affermato la Levendosky. “Questo potrebbe spiegare i problemi emotivi dei bambini dopo la nascita.” Psicologa clinica da quasi 20 anni, la Levendosky ha assistito molte sopravvissute a violenze domestiche le quali non credevano che l’abuso avrebbe influenzato i loro figli fino a quando il bambino non fosse stato abbastanza grande per capire cosa stesse succedendo. “Dicevano cose come: ‘Oh, dovevo lasciare il mio partner quando mio figlio aveva l’età di 3 o 4 anni ma prima di allora, sa, la situazione non poteva influenzarlo, non poteva ricordarselo.’ Ma penso che questa scoperta darà un forte messaggio sul fatto che la violenza influenza il bambino anche prima della sua nascita.” Lo studio è stato pubblicato sul giornale “Child Abuse & Neglect”. I coricercatori della Levendosky includono Brittany Lannert, Anne Bogat e Joseph Lonstein. Fonte: Michigan State University Today Il modello teorico della Dissociazione che vorrei esporvi oggi è quello proposto da G. Liotti (e collaboratori). Tale modello prevede che sintomi dissociativi di rilievo clinico si presentino quando ci si trova ad affrontare un trauma che attiva il sistema motivazionale di attaccamento ma ciò non basta, tale sistema deve essere regolato da un modello operativo interno di tipo disorganizzato oppure ci devono essere impedimenti ambientali ad avere risposte alle esigenze di cura e conforto. Se non si verificano queste due ipotesi, i sintomi dissociativi saranno solo transitori.
Ricordiamo che la disorganizzazione dell'attaccamento è dovuta alla simultanea attivazione del sistema di difesa, a causa dalla paura indotta dal caregiver, e del sistema di attaccamento; il bambino in questa situazione sperimenta paura e impotenza ("paura senza sbocco"). Il caregiver può provocare paura nel bambino in due modi, mentre lo accudisce, attraverso atteggiamenti apertamente aggressivi (caregiver spaventante) o attraverso il contagio emotivo come accade quando inconsapevolmente esprime paura legata alle proprie memorie dolorose (caregiver spaventato/impotente). Il protrarsi di questa situazione porta il bambino a veri e propri sintomi dissociativi: comportamenti contraddittori e incoerenti (avvicinamenti al caregiver seguiti in maniera abnormemente veloce da movimenti di allontanamento) come se vi fossero due centri in conflitto incapaci di integrarsi in una soluzione unitaria; altre volte le risposte suggeriscono detachment dissociativo per cui il bambino appare estraniato, resta improvvisamente immobile e con lo sguardo assente o si irrigidisce. L'utilizzo di altri sistemi motivazionali interpersonali (rango, accudimento, formazione della coppia sessuale) riesce ad inibire il sistema di attaccamento nelle persone che provengono da una storia di attaccamento disorganizzato e quindi a proteggere, anche per molti anni, dall'esperienza della dissociazione. Un trauma causa dissociazione patologica e durevole perché induce il collasso delle strategie controllanti (punitiva, accudente, sessuale o evitamento relazionale) preesistenti. Un effetto simile lo si può avere anche per eventi non apertamente traumatici, ma capaci di invalidare una strategia controllante sul piano comportamentale o dei significati personali. Prima che un nuovo trauma o altri eventi di vita capaci di invalidare le strategie controllanti portino all'emergere di sintomi dissociativi, un disturbo traumatico dello sviluppo può essere suggerito a volte solo da sintomi tipici di altri disturbi come la depressione, l'ipocondria o attacchi di panico (e altri) e dai disturbi di personalità che possono derivare dall'uso continuo e coercitivo di strategie controllanti, dall'inibizione dell'attaccamento e dai deficit metacognitivi che ne conseguono. Vedi anche i seguenti articoli: - Dissociazione...un fenomeno sottovalutato - I sistemi motivazionali Bibliografia: G.Liotti, B. Farina - "Sviluppi traumatici" - Raffaello Cortina Editore Iniziamo col dire che non è possibile parlare di dissociazione senza parlare di trauma visto che i due concetti sono strettamente interconnessi.
Partiamo dalla definizione di trauma psicologico secondo il DSM: "L'esperienza personale diretta di un evento che causa o può comportare morte o lesioni gravi, o altre minacce all'integrità fisica", è considerato però trauma anche una minaccia alle nostre relazioni significative, continua infatti la definizione con "Un evento che comporta morte, lesioni o altre minacce all'integrità fisica di un'altra persona; o il venire a conoscenza della morte violenta o inaspettata, di grave danno o minaccia di morte o lesioni sopportate da un membro della famiglia o da altra persona con cui si è in stretta relazione". Questa definizione appare però insufficiente a capire come mai alcune persone rimangano traumatizzate da un evento e altre, esposte alla stessa situazione, no. Qui ci viene in soccorso un'ulteriore precisazione: la risposta al trauma comprende "paura intensa, sentimenti d'impotenza o di orrore". L'elemento di percepita totale impotenza appare di cruciale importanza nella stessa definizione di trauma. In questo senso, il trauma è definito come un evento emotivamente non sostenibile per chi lo subisce, meno importante è la gravità oggettiva. La possibilità di reagire efficacemente a una minaccia pone dunque il confine tra un'esperienza estrema e grave ma non necessariamente patogena e il trauma psicologico. Vivere una situazione minacciosa alla quale è impossibile sottrarsi o reagire efficacemente neutralizzandola, e contro la quale non si ottiene sufficiente aiuto o sostegno da altri, genera un senso di sfiducia conseguente all'impotenza, che diventa uno degli elementi clinici più comuni e importanti nei disturbi correlati ai traumi. Anche senso di colpa e vergogna sono due emozioni comuni nelle persone traumatizzate. Esse derivano dalla percezione di mancato controllo della situazione, durante l'evento traumatico, che viene imputato ad una mancanza personale o ad un proprio difetto invece, come sarebbe corretto, alla disattivazione del corpo durante la dissociazione. La dissociazione è un disturbo della coscienza che deriva da quelle intense emozioni di paura e impotenza senza sbocco che provocano un cedimento strutturale della stessa. Ora vedremo le varie forme e i modi di presentarsi della dissociazione utili per saperla riconoscere. Un elenco parziale dei sintomi con cui possono manifestarsi i processi disintegrativi comprende derealizzazione, depersonalizzazione, stati di confusione mentale, stati di trance e possessione, stati di assorbimento e attenzione divisa, amnesia psicogena, ricordi intrusivi, gravi difficoltà nell'organizzare narrazioni autobiografiche coerenti, confusione e alterazione del senso d'identità, stati dell'io multipli e non integrati e gravi difficoltà a regolare gli stati emotivi. Per mettere ordine in questa moltitudine di sintomi, anche sulla base del loro ipotizzabile diverso meccanismo di genesi, è stato proposto recentemente di ripartirli in due categorie: detachment (distacco) e compartmentalizazion (compartimentazione) (Holmes e al. 2005). I sintomi dissociativi di distacco rimandano tutti, direttamente, all'esperienza di sentirsi alienati dalle proprie emozioni (numbing emotivo), dal proprio corpo (depersonalizzazione), dal senso usuale di familiarità di realtà ambientali note (derealizzazione). La forma di coscienza che appare alterata nel distacco o alienazione è quella in prima persona, nota nella scienza cognitiva anche come coscienza fenomenica. Il mondo della coscienza fenomenica è il mondo dei qualia (es. di qualia sono: il sapore di una mela, il profumo di una rosa...esperienza che tutti noi conosciamo ma che non sappiamo descrivere se non approssimativamente), caratterizzato da un'evidente natura qualitativa, preverbale, dei suoi componenti: sensazioni, sentimenti, emozioni e in genere immagini mentali fra le quali un ruolo centrale per la coscienza è svolto dall'immagine corporea (Damasio, 1999). Il primo effetto patogeno del trauma è quello di "far perdere confidenza con l'esperienza interna" (Albasi, 2009). I sintomi dissociativi di compartimentazione riguardano invece la coscienza in terza persona o cognitiva, chiamata anche coscienza di accesso, perché i suoi componenti sono prevalentemente verbali o rappresentati da immagini mentali alle quali si ha accesso cosciente, e spesso deliberato, attraverso la parola. In questo tipo di sintomi, sono impediti i confronti e le connessioni semantiche fra contenuti mentali che normalmente dovrebbero poter entrare simultaneamente nel campo della coscienza. Esempio prototipico è quello dell'amnesia dissociativa in cui un ricordo non è più accessibile a causa del processo dissociativo a differenza delle emozioni associate al trauma che si ripresentano. Esiste anche una forma di dissociazione somatoforme in cui i sintomi dissociativi hanno origine comune in un deficit integrativo di tipo bottom-up, causato dalla mancata integrazione dei dati provenienti dai centri nervosi inferiori, sedi delle afferenze e delle memorie somatoviscerali (bottom), con le capacità rappresentazionali e riflessive della coscienza (up). I sintomi che ne derivano variano da quelli di conversione, in cui sono alterati le funzioni, il controllo e la consapevolezza di alcune parti del corpo, a sindromi dolorose psicogene, a somatizzazioni. Bibliografia: G. Liotti, B. Farina - "Sviluppi traumatici" - Raffaello Cortina Editore P. Ogden, K. Minton, C. Pain - "Il Trauma e il Corpo" - Istituto di Scienze Cognitive Editore |
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Blog del Dr. Fabio Boccaletti - Psicologo e PsicoterapeutaCategorie
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