La Depressione è un disturbo molto vario e complesso difficile da spiegare in un modo univoco anche a partire dalla stessa sintomatologia. La concettualizzazione di cui volevo parlare oggi è quella neurobiologica ma, per farlo, devo primo descrivere alcuni processi fisiologici importanti: il bilanciamento autonomico e la risposta di emergenza ad un evento. Bilanciamento Autonomico e reazione d'emergenza Il Sistema Nervoso Autonomo (SNA) è costituito di due rami in relazione stretta tra di loro: il Sistema Nervoso Simpatico (SNS) e il Sistema Nervoso Parasimpatico (SNP).
Il SNS ha un funzionamento catabolico per cui brucia energie e risorse mentre il SNP ha un funzionamento anabolico che permette la formazione di risorse energetiche e la riparazione di eventuali danni avvenuti durante la fase catabolica. Questi due sistemi si alternano durante la giornata e durante ogni singolo processo ritmico (come per esempio la respirazione), determinando quelli che sono i bioritmi naturali. Cosa accade, però, se un evento turba l'equilibrio (bomba nell'immagine)? Si ha quella che viene chiamata reazione allo stress e che ora vedremo, con particolare attenzione alla fase 1 - 2: la reazione d'allarme. Nella fase di allarme, il Sistema Limbico viene stimolato e ciò produce tre risposte importanti: l'Amigdala attiva il sistema di sopravvivenza (bloccando la corteccia frontale e quindi il "ragionamento"), lanciando l'allarme; l'Ipotalamo dà il via alla risposta del sistema autonomico (SNS), e il Talamo chiude il "cancello" degli input sensoriali, evitando la percezione del dolore (e del corpo). Quest'ultimo processo è responsabile della dissociazione peritraumatica e, in alcuni casi, della dissociazione patologica traumatica. Nella fase 2 - 3 abbiamo la resistenza allo stress durante la quale è massiccia l'attività del SNS, che prepara l'individuo e l'organismo a fronteggiare il pericolo: midriasi pupillare (le pupille si dilatano); sudorazione profusa; riduzione di secrezioni nasali, lacrimali e salivari; aumento della frequenza cardiaca e respiratoria (fame d'aria); dilatazione bronchiale; diminuzione della secrezione gastrica e della peristalsi intestinale; vasocostrizione periferica (freddo a mani e piedi); dilatazione sfinterica; aumento della contrazione muscolare (fino a tremori diffusi); attivazione del sistema immunitario che dà il via alla risposta infiammatoria (in caso di eventuali ferite). La fase 3 - 4 è la prima fase di recupero dopo lo stress ad opera del SNP con anabolismo ad azione trofica (recupero delle energie): le pupille si stringono, le secrezioni nasali, lacrimali e salivari aumentano, la frequenza cardiaca e respiratoria si abbassa (sbadigli), aumenta la secrezione gastrica e la peristalsi intestinale (nausea, vomito), i bronchi si stringono (tosse), i vasi periferici si dilatano (mal di testa e/o formicolio alle estremità), gli sfinteri si stringono, ma vi è rilassamento muscolare. A questa fase segue un picco simpaticotono su base adrenergica (4 - 5) e poi un secondo rapido ritorno del SNP (5 - 6) con anabolismo di recupero morfologico (vengono riparati i tessuti danneggiati). La reazione d'emergenza termina con il ritorno alla normale attività di alternanza fisiologica tra SNS e SNP (6 - 7 - 8). Cosa importante da sapere è che SNS e SNP hanno un'attivazione ad "altalena" per cui più intensa è la risposta Simpatica, più intensa e duratura sarà la risposta Parasimpatica a fine stress. A cosa servono queste informazioni ai fini dell'inquadramento della depressione? La risposta a questa domanda prevede di considerare la depressione divisa in due fasi: la fase pre-depressiva e la fase depressiva vera e propria. Fase Pre-Depressiva Si può considerare questa fase, più o meno lunga (a volte mesi, a volte anni), come una fase di resistenza (a cosa? Alla depressione vera e propria), e quindi stress, in cui prevalgono le risposte di attacco fuga (SNS) in un crescente sforzo per continuare ad essere come prima o per corrispondere ad un ideale di sé stessi irraggiungibile. In questa fase aumentano ansia legata a sensazione d'inadeguatezza e senso di colpa ed autosvalutazione nei fallimenti; si inizia, inoltre, a sentire la pressione della tristezza. La risposta autonomica è caratterizzata da alta frequenza cardiaca, pressione arteriosa e glicemia alta, tensione muscolare a testa, collo e spalle, facilità di iperventilazione (che aumenta ansia, vertigini e parestesie), difficoltà digestive (per mancanza di secrezioni gastriche), stitichezza con occasionali episodi di diarrea, alterazioni del sonno (inizialmente frequenti risvegli poi difficoltà ad addormentarsi), infiammazione sotto soglia. Fase Depressiva vera e propria Ci si entra a seguito della caduta in ipoarousal (SNP) quando la resistenza si spezza. E' caratterizzata da perdita di motivazione, energie e piacere. Aumenta la sensazione d'impotenza e d'inaiutabilità. La risposta autonomica è caratterizzata da difficoltà digestive per eccesso di secrezioni gastriche (acidità e reflusso gastrico), diarrea con occasionale stitichezza, disturbi del sonno (risvegli precoci, difficoltà ad alzarsi, umore peggiore al mattino), infiammazione (che a sua volta peggiora l'umore fisiologicamente).
0 Commenti
L'autolesionismo è un comportamento volto a volersi far male senza aver l'intenzione di morire. Alcune delle forme più frequenti di autolesionismo sono: tagliarsi, bruciarsi (con la sigaretta, accendino, fiammifero, ecc.), graffiarsi, dare testate o pugni al muro, mordersi, interferire con la guarigione di ferite autoinferte. Oltre a queste forme evidenti di autolesionismo, esistono comportamenti pericolosi come l'abuso di sostanze, sesso impulsivo in situazioni umilianti, guidare ad alta velocità, ecc. Spesso le persone finiscono per sentirsi male dopo aver messo in atto tale comportamento e ciò non fa altro che incrementare il problema. Vediamo cosa racconta una persona rispetto al gesto di tagliarsi: "Ho sentito una lotta interna per anni. Con il passare del tempo, dato che non riuscivo a trovare soluzioni efficaci a questa lotta interna, ho iniziato ad autoferirmi e questo è stato molto efficace. Mi sentivo meglio; quando pensavo di non poter andare avanti, che non aveva senso combattere e che la vita non aveva alcun significato, ho iniziato a tagliarmi. Potrebbe sembrare strano, ma non volevo morire, volevo smettere di soffrire. Volevo imparare a tollerare l'inaspettato, vivere senza troppo dolore...volevo, ma non ce la facevo, non sapevo come... Gli autoferimenti sono diventati più forti e finii per esserne dipendente. Non riuscivo a smettere di farmi male, qualsiasi situazione o qualsiasi cosa inaspettata era sufficiente per portarmi a farmi male. Nessuno si è accorto di nulla, finché non sono andata troppo oltre e ho avuto bisogno di un intervento medico, c'era sangue dappertutto. Pensavo che mi sarei dissanguata in camera, avevo tantissima paura e sono uscita per chiedere aiuto." Dalle parole di questa persona si comprendono bene due cose che non dovrebbero mai essere confuse: dietro questi gesti non c'è intenzione di morire né di attirare l'attenzione! Allora cosa spinge queste persone a mettere in atto un gesto apparentemente senza senso? Come può un gesto simile dare sollievo (come leggiamo nella testimonianza sopra) visto che provoca dolore? Per dare risposta a queste domande ci vengono in aiuto due fattori, uno fisiologico e uno psicologico:
Oltre alla funzione di autoregolazione emotiva, l'autolesionismo può assumere una forma di comunicazione in quei casi in cui la persona vuol rendere "visibile" il suo disagio, ma non tanto agli altri, quanto a se stessa. L'autolesionismo può essere un modo per punirsi in situazioni in cui le persone si percepiscono aggressive o inadeguate o per chiedere scusa di una colpa che provano ed, in questo caso, vi può essere alle spalle una storia di maltrattamenti vissuti come "punizioni" giuste. Un bambino, per salvare la relazione con le figure di attaccamento (essenziali per la sopravvivenza), sarà portato a pensare che i maltrattamenti siano giusti perché lui è stato cattivo e non che i genitori lo siano.
"Perché mi autoferisco? Per avere ciò che mi merito. Quando mi faccio male, penso di meritarmi questo e anche di più. Solitamente mi faccio male quando mi sento in colpa, quando sono arrabbiato, quando sono entusiasta di qualcuno e questi mi delude...per qualsiasi cosa. Se le persone a casa litigano, di solito mi taglio perché mi sento molto male, penso che sono io a causare questi litigi. Loro non sanno cosa fare con me, ma non riesco a fare a meno di pensare che mi merito di essere punito." Una forma di autolesionismo molto particolare è quello di origine dissociativa che spesso è associata ad un forte conflitto interno: queste persone sentono l'urgenza di autoferirsi come una cosa egodistonica ("come se non fossi io"), che non vorrebbero fare, cercano di resistere all'urgenza oppure se ne sentono controllate. Queste persone possono avere un'amnesia parziale o totale rispetto all'autolesionismo. "Mi facevo male a causa dell'angoscia, dei blocchi mentali, del non essere in grado di reagire, del sentirmi andare fuori di testa...diventavo molto nervosa. Quando fai queste cose, sembra che non sei te stessa, ma una persona completamente diversa. Lo dico perché quando mi autoferisco, non sembro "me stessa", ma è un forza dentro di me che mi costringe a farlo...dopo mi sento molto in colpa e molto frustrata. Qualcosa mi spinge a farlo, ma in questo momento è come se non fossi io...ci sono parti di tutto questo che non ricordo..." Quando si ha a che fare con questa problematica, è essenziale chiedersi perché, a cosa serve. Ed esplorare cosa accade prima del gesto: emozioni, sensazioni, idee negative per capire da dove vengono nella storia del paziente. La teoria "Emozione - Stato delle dipendenze da comportamento" postula che le dipendenze si sviluppino quando emozioni positive, associate ad oggetti o comportamenti specifici, vengono a formare un ricordo stato - dipendente.
Il ricordo stato - dipendente, composto sia dalle sensazioni vissute durante l'evento originario, sia dal comportamento messo in atto durante tale evento, forma un'unità chiamata "Emozione - Stato". L'Emozione - Stato è ipotizzata essere la causa delle dipendenze comportamentali. Le emozioni di cui si parla hanno una caratteristica fondamentale: sono emozioni legate all'esigenza di certezza della sopravvivenza, quindi che richiamano bisogni di appartenenza, sicurezza, di essere un vincente, di essere vivo. EMOZIONE - STATO = Fissazione di EMOZIONI + COMPORTAMENTO Punti importanti di questa teoria sono che: basta un singolo evento positivo per causare una dipendenza comportamentale, quello che cerca la persona è l'emozione non il comportamento, lo stesso comportamento può essere l'esito di diverse emozioni. Facciamo un paio di esempi: Il padre di Carlo giocava a poker con gli amici. Carlo desiderava tanto essere parte del gruppo (esigenza di certezza della sopravvivenza: appartenenza) perché suo padre non gli prestava molta attenzione quando era piccolo. Finalmente, verso i suoi vent'anni, suo padre gli permise di far parte del gruppo settimanale e giocare a poker. Carlo sperimentò una forte emozione positiva (Emozione - Stato) che lo portò, in seguito, a giocare a poker almeno 5 sere a settimana fino a quando avesse perso tutti i soldi. Anche quando vinceva a inizio serata, continuava a giocare fino a perdere tutto. La vera compulsione di Carlo non è per il poker, ma per il desiderio di sentirsi in relazione con suo padre. Al liceo, un gruppo di ragazzi fecero una gara per vedere chi riusciva a fare sesso col maggior numero di ragazze. Quando Marco vinse la sfida provò un'intensa ammirazione (Emozione - Stato) da parte degli altri ragazzi. Quando Marco entrò in terapia, anni dopo, cercava ancora di fare sesso con più donne possibile. Marco, dopo aver fatto sesso, lo raccontava sempre ad uno dei suoi amici che si complimentava con lui, in quel momento, perdeva completamente interesse per quella donna. Il padre di Marco era una persona fredda che l'ha sempre considerato un buono a nulla (esigenza di certezza della sopravvivenza: essere un vincente). Marco, in realtà, non era interessato al sesso ma a rivivere l'intensa emozione di ammirazione dei suoi pari Perché alcuni eventi sono così potenti da creare una dipendenza? Un evento può essere incredibilmente intenso quando stimola un'emozione per la quale la persona nutre un desiderio molto forte. Spesso nella vita di queste persone è presente un trauma, o più traumi, che favoriscono lo svilupparsi di un'idea negativa di sé (sono solo, non sono amabile, sono un perdente, non sono capace, ecc.) la quale blocca quelle azioni che favorirebbero lo sperimentare l'emozione desiderata, ciò crea una vulnerabilità. Se queste persone si troveranno in una situazione dove sperimenteranno un comportamento che li porta a provare quell'emozione desiderata e bloccata, ecco che si forma l'Emozione - Stato e quindi la dipendenza comportamentale. Importante sottolineare che, indipendentemente dal comportamento messo in atto, la persona cerca un'emozione positiva per la sopravvivenza, anche nei comportamenti autolesvi o dannosi. La terapia EMDR mira a rompere il legame fissato tra emozione e comportamento, quindi lo scopo non è eliminare il comportamento ma liberare la persona dal doverlo fare. Durante la terapia non è richiesta astinenza. Cosa succede alla fine del trattamento? Il ricordo dell'esperienza piacevole che ha determinato l'Emozione - Stato viene integrata col resto delle esperienze esattamente come accade per il lavoro sui traumi. Bibliografia: R.M. Miller - "Feeling - State Theory and Protocols for Behavioral and Substance Addictions" - ImTT Press publisher Gli esperimenti terapeutici interrompono direttamente ciò che è stato appreso in modo procedurale e gettano luce su come i traumi e le ferite di attaccamento vengono riassunte nel momento presente. Gli esperimenti possono consistere in semplici azioni verbali (per es. dire "no") o fisiche (protendersi, creare contatto oculare, spingere via) che sfidano le risposte condizionate, oppure nell'attivazione di una risposta abituale in modo da scoprire di più su di essa.
Fare esperimenti con le abitudini legate ai movimenti, alla postura e ai gesti può cambiare la comunicazione implicita verso gli altri e anche verso noi stessi. Nella psicoterapia sensomotoria la consapevolezza corporea è solo l'inizio. Il punto cruciale è aiutare il paziente ad affrontare e a cambiare l'apprendimento procedurale, ovvero le modalità attraverso le quali l'informazione è elaborata a livello corporeo: questo richiede che i movimenti, i gesti e le posture che rispecchiano e sostengono la propria storia personale vengano affrontati in modo che inizino a cambiare spontaneamente. Il terapeuta sensomotorio guida la consapevolezza del paziente verso particolari elementi dell'esperienza corporea e li segue finché cambiano spontaneamente o propone specifiche azioni che portano gli schemi somatici radicati nel passato a riorganizzarsi. Sebbene gli esperimenti condotti in terapia siano, in linea di principio, "tecniche", essi non sono né generalizzabili né manualizzabili. L'ispirazione a utilizzare uno specifico esperimento affiora naturalmente e in modo inaspettato mentre terapeuta e paziente si sperimentano soggettivamente l'uno con l'altro. Philip Bromberg afferma di non "pianificare" in anticipo cosa dire o fare durante l'ora di terapia: piuttosto lui "si trova" a fare o a dire certe cose che emergono spontaneamente dall'interno della relazione. Al terapeuta serve formazione, esperienza e pratica per "sapere" quali segnali non verbali sono indicatori significativi e quali non lo sono, e come applicare un esperimento terapeutico durante la seduta. Questo "sapere" non è di tipo cognitivo: piuttosto il terapeuta si trova nella situazione di venire attratto da un indicatore particolare o verso un particolare esperimento, spesso senza sapere il perché: solo più tardi potrà scoprire il collegamento con elementi traumatici o di attaccamento impliciti. Gli interventi sono l'esito spontaneo della responsività emozionale e somatica all'esperienza di ciò che sta avendo luogo nella relazione terapeutica, aspetto che non viene elaborato cognitivamente ma è conosciuto implicitamente. Bibliografia: P. Ogden, J. Fisher - "Psicoterapia Sensomotoria" - Raffaello Cortina Editore Come si possono riconoscere i vari disagi psicologici? Vediamolo attraverso le esperienze di alcune persone. Paolo ha seriamente pensato di morire quando, trovandosi alla guida della sua auto, ha improvvisamente sentito un forte dolore al petto, un aumento repentino del ritmo cardiaco e uno strano formicolio agli arti superiori. Convinto di essere stato colpito da infarto, ha chiesto al fratello di prendere il suo posto alla guida e di accompagnarlo subito al pronto soccorso dove, dopo un attento esame, i medici hanno escluso la presenza di cardiopatie. Da un paio di mesi Carla è molto preoccupata per il proprio equilibrio mentale. Si è sempre considerata una donna razionale e determinata, ma da qualche tempo le capita, saltuariamente e “a ciel sereno”, di avvertire un’intensa “fame d’aria” e una sensazione di “testa leggera” e sbandamento, si sente distaccata da sé stessa e teme enormemente che prima o poi perderà il controllo di sé. Nonostante tale timore, non ha cambiato in modo significativo il proprio stile di vita. Si tratta di: Disturbo da attacchi di panico Corrado ormai da anni conduce una vita molto ritirata. Dopo un periodo caratterizzato da frequenti attacchi di panico, ora si dice terrorizzato dall’idea di poterne avere altri. Non prende più mezzi pubblici, non usa più l’automobile, evita le code e i luoghi affollati, non viaggia, e dopo alcuni mesi di aspettativa ha ottenuto di poter svolgere il suo lavoro da casa attraverso l’uso del computer. Si allontana dalla sua abitazione solo in caso di stretta necessità e solo se accompagnato da un familiare. Si tratta di: Agorafobia Marta racconta cosa le capita tutte le volte che ha un appuntamento di lavoro: "Mi preoccupavo anche prima di andare al lavoro. Pensavo che se la mia macchina si fosse rotta avrei fatto tardi all'appuntamento, avrei dovuto tirar fuori una scusa e il mio capo si sarebbe arrabbiato con me. E se poi mi avessero chiesto un'opinione su qualcosa e non fossi stata preparata? Mi preoccupavo costantemente, chiedendomi se avevo fatto la cosa giusta o se avevo sbagliato qualcosa nella relazione. E se non fosse andata bene? Avrebbero pensato che sono un incompetente. E se si fossero pentiti di avermi assunta? Cosa avrei detto se mi avessero chiesto qualcosa che non sapevo? Era davvero troppo. Mi preoccupavo sia prima che durante l'incontro col capo e, una volta tornata in ufficio, non ne potevo più. Mi sembrava di aver combinato un disastro e scoppiai a piangere." Si tratta di: Disturbo da ansia generalizzata Enrico, neo assunto in un’azienda che si occupa di comunicazione e marketing, deve esporre un progetto al suo superiore: si tratta del primo lavoro che gli viene affidato, il cliente è un piccola ditta, ma è l’occasione per dimostrare le sue potenzialità nella nuova azienda. Quando comincia a parlare gli trema la voce, tossisce, sente le mani che sudano, una vampata di calore arriva fino al volto. Si sente arrossire, preme velocemente sul computer le freccette per andare avanti con la presentazione: salta una slide, sorride nervoso, torna indietro. Continua a pensare a cosa si nota da fuori (a cosa potrebbero vedere gli altri), cerca di calmarsi, ma la sensazione di non aver controllo sul proprio corpo lo agita ancora di più. Non vede l’ora che sia finita: in cinque minuti ha già esposto la sua idea al superiore, che lo guarda perplesso. Si tratta di: Disturbo da ansia sociale Giulia è una donna di cinquant’anni, sposata, ha due figli che frequentano l’università e fa la giornalista. È sempre stata una donna dinamica, attenta alla sua salute e all’aspetto fisico e ha uno stile di vita sano. Una forte bronchite la costringe a letto per un paio di settimane, ma una volta guarita sente di non stare del tutto bene. Avverte difficoltà a respirare, si stanca con facilità, sente dolori al petto. Si reca dal medico che le prescrive alcuni controlli: gli esami non rivelano ulteriori problematiche. Giulia è sana, ma nella sua mente è costantemente presente il pensiero di essere afflitta da una grave patologia, che i medici non sono ancora riusciti a identificare. Inizia un lungo iter presso vari specialisti, i quali svolgono tutti gli accertamenti del caso e spesso indirizzano verso ulteriori controlli. Nel frattempo, Giulia si sente sempre peggio, aumentano i sintomi e diventano più dolorosi e frequenti. Preoccupata dall’assenza di una diagnosi che giustifichi il suo malessere, Giulia avverte i figli, prenotando anche per loro controlli specifici. Alcuni professionisti cominciano a indicare la possibilità di un’origine psicologica del problema, anche se a tutti sembra impossibile: Giulia non ha mai sofferto d’ansia, è una donna molto razionale, pragmatica e punto di riferimento per molte persone. Si tratta di: Disturbo da ansia di malattia Alice è una giovane laureata, attualmente ha una borsa di studio in università, dove si occupa di ricerca, e frequenta un master di specializzazione; è fidanzata con Davide da anni e sono da poco andati a convivere. La vita di Alice sembra perfetta e invidiabile: è in buona salute, fortemente stimata nel suo ambito, ha una famiglia che le vuole bene. Tuttavia, Alice vive costantemente una sensazione di insoddisfazione, mancanza di interesse per quello che fa, si sente costantemente stanca, la testa è pesante. Riflette su quello che ha e si sente in colpa, in fondo non può lamentarsi di nulla. Ogni minima delusione si trasforma in una ferita profonda e ogni gesto, ogni sguardo, ogni parola a lei rivolti sono segnali di critiche o giudizi negativi. Passano i giorni, e Alice si rende conto che non c’è via d’uscita: pensa continuamente a quanto si sente male e pur provandoci non riesce ad agire diversamente. Perde peso, dorme male, limita gradualmente tutte le attività extra lavorative. Spesso pensa che ogni giornata porti con sé compiti inaffrontabili, comincia a stare sempre più tempo in casa, smette di andare a lavorare. Si tratta di: Disturbo depressivo Ogni volta che rientra in casa Marina toglie le scarpe e le infila in una busta prima di riporle nella scarpiera. Poi toglie tutti i vestiti e li appoggia in una sedia adibita a questo scopo che tiene vicino all’ingresso. Va poi al bagno a lavare le mani, gli avambracci e il volto; ogni parte viene lavata più volte, fino a 20 volte. Infine, prima di indossare i “vestiti puliti da casa”, passa un batuffolo di cotone imbevuto di disinfettante sui capelli e sugli occhiali. Alla fine di queste operazioni Marina si sente “pulita”, intendendo con ciò l’impressione che su nessuna parte del suo corpo siano depositate sostanze contenenti germi o altro “sporco”. Alberto, tutti i giorni, prima di andare a letto controlla che la manopola del gas sia chiusa; questa operazione richiede tutti i giorni dai 15 ai 25 minuti: dopo aver girato la manopola del gas, Alberto apre e richiude la manopola un preciso numero di volte, controlla ripetutamente che la manopola sia perfettamente orizzontale, controlla il grado d’inclinazione rispetto alle piastrelle della parete. Il controllo finisce quando Alberto si sente “abbastanza sicuro che il gas sia chiuso bene”. Si tratta di: Disturbo ossessivo compulsivo Improvvisamente mi trovo in un posto e non ho idea di come ci sono arrivato, o perché stavo andando lì. Torno a casa, apro il frigo e vedo il formaggio. E dico: "A me non piace il formaggio"...E vado a fare la spesa di nuovo. Capita molte volte, trovo cibi acquistati che non mi sono mai nemmeno piaciuti. Improvvisamente, "torno in me", ricordo come ho cominciato a fare ciò che stavo facendo, fino al momento in cui, non so nemmeno come, è subentrato il pilota automatico. Non riesco però a descrivere ciò che è avvenuto nel mezzo. Mia moglie mi ha riferito quello che ho detto, so che sta dicendo la verità, e ho notato che lei era davvero preoccupata. Ricordo solo l'inizio, e mi ricordo che ero arrabbiato, e mi ricordo di come lei stava reagendo. Vorrei poterti dire che abbiamo avuto una discussione normale, senza arrivare a tanto. Ma l'ho insultata, mio Dio, L'ho anche spinta...non l'avevo mai fatto, mi rivedo a fare quello che ha fatto mio padre, che è l'ultima cosa che vorrei per la mia famiglia. Trovo difficile crederci, perché non mi ricordo di aver fatto tutto quello che lei dice... Si tratta di: Amnesia dissociativa Quando avevo 12 anni, ho iniziato a giocare con la mia coscienza, attivandola o spegnendola quando volevo, proprio come si preme un tasto on-off volontariamente. Sceglievo quando essere consapevole di quello che stava accadendo intorno a me e quando non percepire nulla, anche se sembrava che fossi normalmente presente, partecipavo a una conversazione come tutti gli altri, solo che la mia bocca si muoveva in modo automatico...E' come stare in una bolla di vetro dentro il mio corpo, che agisce in modo autonomo mentre l'altro dorme imperturbabile. Lasciavo il mio corpo, mi vedevo dal di fuori, come sto vedendo lei adesso. La prima volta che è successo ero un bambino, in seguito è capitato diverse altre volte. La mia testa e il mio corpo si scollegano. A volte mi vedo fare le cose, ma è come fossi un robot. La mia testa osserva, ma tutto avviene automaticamente. Le parole escono dalla mia bocca senza che possa decidere quello che dico, non riesco a controllarlo...Una volta ho gridato a X e le ho dato della "puttana", e davvero non so perché l'ho fatto...Non ero io... E' come se il mio corpo non mi appartenesse. A volte, non me ne accorgo nemmeno. Qualche volta è molto doloroso. Lascio, abbandono il mio corpo...Poi mi devo tagliare, o bruciare, o farmi male...Così posso "tornare indietro". Si tratta di: Depersonalizzazione Tornai a casa, capivo che era casa mia ma non riuscivo a riconoscerla. Nulla in quel luogo sembrava familiare. Ero davvero spaventato, rimasi bloccato. Non sapevo cosa fare. Per un momento, tutto appariva come un film, era come vivere nel Medioevo e tutti sembravano dei personaggi. Io stesso mi sono visto come un personaggio. Si tratta di: Derealizzazione A volte perdo il controllo, mi arrabbio, e non posso controllare ciò che faccio. In alcune occasioni, sono diventato molto aggressivo...ho frammenti di ricordi di quei momenti, come sequenze incoerenti di un film...Poi mi stringo la testa tra le mani, mi sento molto in imbarazzo, molto in colpa...Ma non posso impedire che questo accada di nuovo. Penso che ci siano un'Anna buona e un'Anna malvagia...Cerco di prevenire la comparsa dell'Anna malvagia, ma a volte lei mi controlla completamente...E' molto vendicativa, in particolar modo con gli uomini. L'altro giorno ho trovato una denuncia che avrei presentato...Ma non mi ricordo di questo...lo so che è stata l'Anna malvagia, ma non riesco a ricordare niente...A volte mi ricordo quando lei appare, ma questa volta non riesco. Si tratta di: Confusione dell'identità Laura, una bella ragazza di 21 anni, dice: “Da due anni quando mi guardo allo specchio o quando faccio caso al mio corpo mi sento sgradevole; è difficile da spiegare, ma è come se mi facessi schifo, disgusto. Guardo le mie cosce o la mia pancia e mi sembra di vedere tanta ciccia o cellulite. Solo quando riesco a mangiare poco mi sembra di essere a posto e non volgare, quindi spesso mi metto a fare lunghi digiuni o diete ferree. Il problema è che poi, o perché sono soddisfatta di me e mi voglio premiare, o perché mi sento depressa e non ne posso più della dieta, mi concedo di interromperla. A quel punto in un attimo mi risento uno schifo e mi ritrovo ad abbuffarmi di schifezze e ricomincio con abbuffate e vomito. Più mangio e più mi viene voglia di provocarmi il vomito; però poi più vomito e più mi sento uno schifo e ho voglia di mangiare. Mi sembra di non riuscire a pensare ad altro che al cibo: o perché non mangio, o perché mangio, o perché devo eliminare quello che ho mangiato”. Si tratta di: Bulimia Nervosa Cinzia è una ragazza di 25 anni, è alta 1 metro e 65 e pesa 40 chili. Nonostante sia gravemente sottopeso continua a vedersi grassa e brutta e si arrabbia con chi le fa notare che ormai "sembra uno scheletro". Gran parte della sua vita è legata al controllo del cibo, al calcolo delle calorie introdotte ed eliminate, a pesarsi ogni giorno con ansia (e se la bilancia non segna un calo, inizia l'angoscia o la rabbia verso se stessa per non essere stata abbastanza forte) e a guardarsi allo specchio cercando ogni piccola imperfezione. Appena finito il pranzo fatto di 2 foglie d'insalata e un cracker si sente in colpa per aver mangiato e all'avvicinarsi della cena inizia già a salire l'ansia. Quando qualcuno le chiede di mangiare o le fa notare quanto poco ha mangiato, si arrabbia e lascia il tavolo. Si tratta di: Anoressia nervosa Marco è un uomo in grave sovrappeso. Tutte le volte che rientra dal lavoro, dove ha avuto diversi scontri col capo e fastidi da parte dei clienti, viene accolto dalla moglie che lo rimprovera per questo e per quello. Marco si sente solo e non capito...sente vuoto nella zona dello stomaco e un enorme fastidio, cena regolarmente ma i pensieri sul lavoro e sul giorno dopo non lasciano la sua mente. Appena la moglie va a letto, Marco si reca in cucina e svuota il frigorifero senza neanche rendersene conto, mangia di tutto e senza un ordine, ingurgita velocemente e senza neanche sentire i sapori di ciò che mette in bocca. Finito il tutto si sente in colpa e promette a se stesso che la prossima volta sarà più forte e che non cederà all'impulso. Si tratta di: Disturbo da alimentazione incontrollata Lo stile di accudimento genitoriale (come un genitore gestisce la sofferenza del figlio) influenza cosa apprenderà il figlio su se stesso e sugli altri, e come si prenderà cura di sé, quindi che persona diventerà da adulto.
Vediamolo ora attraverso quattro esempi. Immaginatevi quattro bambini che si fanno male (ma potrebbe essere anche un disagio psicologico: una preoccupazione, un momento di tristezza, ecc.) e ognuno di loro, per questo, torna a casa. Ecco che cosa imparano su se stessi e sugli altri in base alla risposta dei genitori. Susanna ha cinque anni, cade, si sbuccia un ginocchio, torna a casa a piangere. Sua mamma la guarda in modo molto amorevole e le dice: “Oh poverina ti sei fatta male! Fa male, vero? Vieni qui, ora ti pulisco la ferita: fa male, lo so”; quindi prende un cerotto oppure soffia un po' sulla ferita, tutte cose che i genitori di solito fanno. Dopo un po' la bambina si annoierà sicuramente e ritornerà fuori a giocare. Se la mamma dovesse chiederle: “Ti fa ancora male il ginocchio?”, probabilmente risponderebbe “No, no” mentre sta correndo fuori dalla porta. Quindi Susanna ha imparato che le sue emozioni e i suoi bisogni sono importanti, che quello che prova è importante per la mamma e anche per gli altri, e quando si sentirà male esprimerà i suoi sentimenti in modo genuino e libero. Passiamo al secondo bambino. Mario va a casa e sua mamma sta cucinando. La mamma continua a lavorare con un’espressione del viso tra il sono molto stanca e l'assente. Probabilmente Mario ha già visto quel viso e quella espressione molte volte prima, quindi dice: “Ok, sono caduto ma non ho niente”. La mamma continua con le sue faccende e poi gli risponde : “Ok, vai a lavarti, è l'ora di cena”. Mario impara a non riconoscere le sue emozioni e a non dar loro importanza; quando si sente giù, non si dà neanche il tempo di capire che cosa sta provando davvero, e impara che non si può sentire male, non può sentirsi giù perché gli altri non se ne interessano e non vuole farli preoccupare. Mario impara anche, e questa è l'altra faccia della medaglia, che non è in grado di riconoscere le emozioni degli altri: se non è in grado di riconoscere le sue, non può riconoscere neanche quelle degli altri. Per tanto, quando gli altri si sentono male, si distanzia dalla situazione e si focalizza su se stesso. Potrebbe sembrare un atteggiamento un po' egoista, ma semplicemente, a volte, è quello che le persone imparano con genitori di questo tipo. Terzo caso. Laura corre a casa, sta piangendo mentre la mamma è già uscita per cercarla. La mamma ha sentito che la bambina stava piangendo, sentiva anche delle urla e ha capito che era successo qualcosa di grave, quindi è uscita per cercarla. Quando la vede è così ansiosa che la prende per un braccio e le urla: “Non ti ho detto mille volte di stare attenta?! Mi è quasi venuto un infarto per colpa tua! Forza, andiamo a casa!”. Chiaramente Laura è mortificata e continua a piangere. Una volta che la mamma si calma, perché non è successo niente di grave, le dice semplicemente: “Non piangere, non è successo nulla. Dai, non piangere più che ti fa solo brutta”. Che cosa impara Laura? Che le sue emozioni travolgono gli altri, travolgono sia lei sia gli altri e si sente in colpa per il fatto di essere così (perché preoccupa gli altri, li fa star male), indipendentemente dall'emozione. Ci vuole molto tempo affinché possa sentirsi meglio, poiché non sa cosa fare con le sue emozioni. Cerca disperatamente gli altri, ma in realtà anche se rispondono alla sua richiesta non riesce a calmarsi; a volte si arrabbia addirittura con loro quando cercano di aiutarla. Per quanto riguarda gli altri, quello che impara è che le emozioni degli altri la travolgono, non sa come relazionarsi con loro di fronte a situazioni difficili: quando le persone stanno male, pensa che sia colpa loro, e quando gli altri non si calmano in fretta, diventa ansiosa o addirittura si arrabbia. L'ultimo esempio. Paolo va a fare un giro prima di tornare, non riesce ad andare direttamente a casa perché probabilmente ha paura della reazione dei genitori: si è spaventato molto per la caduta e non riesce a smettere di piangere. Alla fine va a casa e, quando arriva, la mamma gli grida: “Smettila di piangere o ti darò io una buona ragione per farlo! Cadi sempre, sei così stupido, devi stare più attento”. Naturalmente Paolo non si calma e continua a piangere. Arriva suo papà che gli dà una sberla; il bambino cade per il colpo e il papà gli urla: “Ne vuoi ancora?”, quindi lui si congela e smette di piangere. Che cosa impara Paolo? Che mostrare le sue emozioni è davvero pericoloso, impara che, se chiede aiuto, potrebbe farsi male, e impara che si merita ciò che gli sta accadendo: è colpa mia se sono così. Come difesa cosa penserà? Che non capisce le emozioni o i loro usi, che di fatto sono inutili. Penserà che le persone che stanno male in realtà siano deboli, disprezzerà la debolezza, la vulnerabilità e la paura. Penserà di non aver bisogno di nessuno e di non provare niente. Se abbiamo dei genitori focalizzati sui propri bisogni (secondo esempio), e quindi non prestano attenzione al bambino o non importa loro, oppure sono malati o stanno facendo qualcos'altro, i figli penseranno che le emozioni e i loro bisogni non sono importanti, l'atteggiamento difensivo del bambino sarà: focalizzarsi solo su se stesso, le emozioni e i bisogni delle altre persone, in realtà, non sono importanti, o quanto meno non gli interessano. Se abbiamo dei genitori molto critici (terzo esempio), avremo un adulto che se la prende con se stesso quando si sente giù, e sarà molto critico nei confronti di se stesso. Le difese saranno essere molto critico nei confronti degli altri e dare la colpa agli altri per tutto quello che succede. Se invece abbiamo dei genitori soverchiati dal disagio del bambino (terzo esempio), da adulto questo non saprà cosa fare del suo disagio, diventerà ansioso e disperato quando si sentirà male. Nella fase della difesa non sopporterà quando gli altri si sentono male, penserà che siano deboli e li disprezzerà. Se abbiamo un ambiente caotico ed eccessivamente punitivo (quarto esempio), avremo un adulto con dei comportamenti molto rigidi e che improvvisamente può perdere il controllo. Le difese saranno: non seguire le regole, ne ha ricevute talmente tante che adesso non ne vuole seguire nessuna, oppure, punire gli altri come hanno fatto con lui. E voi? Che bambino pensate di essere? Il nostro comportamento è influenzato dalla nostra fisiologia e viceversa. In particolare il nostro comportamento, durante il trauma, è influenzato dal Sistema Nervoso Autonomo (SNA) che è implicato nelle nostre strategie di difesa. Riflettiamo su questo punto: se, in presenza di un'esperienza difficile, il nostro SNA ha funzionato, cioè se ci siamo difesi in modo appropriato, non c'è stato trauma. C'è stata, solo, un'esperienza difficile con cui siamo stati capaci di confrontarci e che probabilmente ci ha lasciato delle Risorse.
Vista l'implicazione del SNA con l'esperienza traumatica, credo che, quando lavoriamo sul trauma, dovremmo abituarci ad avvalerci di una doppia valutazione del nostro paziente. Da una parte dovremmo tenere la sua storia, la concettualizzazione del caso, la diagnosi nosografica, dall'altra parte, invece, dovremmo imparare a tener conto della mappa delle reazioni del SNA del nostro paziente, abituandoci ad indagare accuratamente sul suo stato di regolazione. Infatti, in un continuum che va dallo stato di massimo ipoarousal sperimentato come mancanza di coscienza, vomito, mancanza di controllo degli sfinteri e tutte le reazioni che si mettono in atto quando l'azione non è più possibile, allo stato di massima regolazione e benessere, c'è un punto dove il SNA del nostro paziente spesso si è bloccato nel momento del trauma, c'è un punto dove esso tende a stabilizzarsi come stile usuale di arousal. La teoria Polivagale di Porges Secondo Porges il nostro SNA risponde alle sfide adattivamente ed è sempre alla ricerca di sicurezza. A partire da questa ricerca di sicurezza, o meglio, per affinare le strategie di difesa, nel corso della filogenesi, il SNA dei mammiferi superiori e dell'uomo si è complessizzato fino a raggiungere la struttura attuale: Porges individua tre circuiti neurali, corrispondenti a tre fasi di sviluppo, nonché tre strategie di difesa. Il primo e il più antico è il Circuito Dorso Vagale (DV). Questo ramo non mielinizzato del nervo vago, condiviso dalla maggior parte dei vertebrati, causa bradicardia nurogenica e mantiene, nei mammiferi, alcune funzioni connesse con i processi vegetativi. Esso regola gli organi sotto al diaframma. In condizioni di pericolo, la sua attivazione causa immobilizzazione, tipica strategia di difesa dei rettili (dunque immobilizzazione con paura), e ottundimento emotivo. Uno stadio filogenetico successivo ha visto lo sviluppo del Sistema Nervoso Simpatico (SNS), un circuito che governa l'attivazione metabolica, l'aumento del battito cardiaco, la capacità del cuore di contrarsi e l'aumento della frequenza respiratoria necessari per l'attacco-fuga tipica strategia di difesa dei mammiferi. Il Circuito Ventro Vagale (VV), specifico dei mammiferi superiori e dell'uomo si è sviluppato per ultimo. Questo circuito ha un effetto calmante. Ci permette di stare fermi, rilassati, ci permette l'immobilizzazione senza paura. Esso ha due componenti:
L'attivazione di questi tre circuiti dipende dalla condizione di sicurezza-pericolo riscontrata ed è gerarchica (di volta in volta, il circuito più recente tiene a bada quello più antico). In condizioni di sicurezza è attivo il VV che ci da regolazione e ci permette il coinvolgimento sociale. Quando il VV è attivo, il SNS è mantenuto inattivo (freno vagale). In condizioni di pericolo, invece, quando le strategie di confronto relazionale sarebbero maladattive, le strategie di difesa più arcaiche (prima attacco-fuga e poi immobilizzazione) e i circuiti neurali corrispondenti sono attivati in sequenza. Abbiamo visto che il nostro SNA è composto da tre circuiti (VV, SNS, DV) che sono attivati in sequenza. Va aggiunto che i mammiferi sono evoluti per passare rapidamente dal coinvolgimento sociale (VV) alla mobilizzazione (SNS) e viceversa, non appena il pericolo è cessato. Oppure per passare, se questa fallisce, dalla mobilizzazione (SNS) all'immobilizzazione (DV). Non sono evoluti per passare dall'immobilizzazione alla mobilizzazione o dall'immobilizzazione al coinvolgimento sociale. In altre parole il nostro SNA è fatto per una rapida inconsapevole discesa, mentre la risalita non è altrettanto facile. E questo spiega molto della sofferenza dei nostri pazienti. Infatti se essi hanno sperimentato l'attivazione dei livelli bassi del SNA (come in un trauma), essi possono avere grosse difficoltà a riaccedere ai circuiti superiori, cioè a recuperare le loro strategie di difese attive in caso di pericolo, e a tornare allo stato di regolazione e di benessere (VV) quando il pericolo è finito. Fin qui abbiamo parlato esclusivamente dei tre circuiti del SNA e delle tre risposte difensive corrispondenti. Dobbiamo aggiungere, però, che la risposta più comune al trauma, per il mammifero, non è la semplice attivazione DV (immobilità, collasso), ma è il freezing. E il freezing è diverso dal collasso DV (anche se in entrambi c'è l'immobilizzazione). Nel freezing, infatti, c'è contemporaneamente mobilizzazione e immobilizzazione. Per capirci il freezing ce l'ha la gazzella che si blocca immobile col cuore in gola (tensione-immobilizzazione), mentre il topo collassato, in bocca al gatto, è nello stato DV estremo. Nel freezing c'è contemporaneamente attivazione del SNS e del DV. Importanza della sicurezza Per noi mammiferi la possibilità di monitorare la sicurezza, o meglio, la possibilità che il SNA dei mammiferi monitori sicurezza è associata a certe condizioni, che sono più o meno sempre le stesse, e che noi valutiamo, per la maggior parte, inconsapevolmente. La nostra neurocezione (l'attività di valutazione del pericolo da parte del SNA) è estremamente sensibile alla costrizione (sentirsi stretti, intrappolati) e all'isolamento (l'esclusione, l'esser messo da parte). Spesso i pazienti traumatizzati non sanno regolare i confini interpersonali. Un altro elemento essenziale è il contatto col suolo. Il contatto col suolo dà sicurezza, ma molti dei nostri pazienti non hanno un buon grounding. Alcune persone si sentono più sicure sedute in terra. Il rumore è un altro punto essenziale. I pazienti traumatizzati sono ipersensibili ai rumori di fondo e hanno difficoltà a comprendere la voce umana. Può essere utile mettersi d'accordo sul tono di voce che il paziente gradisce di più e, comunque, ricordiamoci che una vocalizzazione modulata ha sull'essere umano un effetto regolante. Difesa contro la riattivazione DV Abbiamo detto prima che la risposta DV non è, per il mammifero, la risposta più comune al trauma. Le risposte DV estreme (rilascio degli sfinteri, vomito, svenimento, ecc.), che sono molto difficili da risolvere, sono, per fortuna, abbastanza rare. Se ci spostiamo sui traumi relazionali precoci, invece, è piuttosto facile trovare reazioni DV, non così estreme, ma non per questo meno insidiose. Situazioni di trascuratezza, di abbandono, di frustrazione inducono facilmente risposte DV. Questi stati DV, anche nelle forme meno estreme, non sono familiari per il mammifero. E' questa la ragione per cui è molto difficile riagganciarli nella processazione. Il paziente non ci vuole andare. Gli stati psicofisiologici passivi: resa, sottomissione, mancanza di speranza, collegati alla percezione di un corpo stanco, assonnato, incapace di reagire, sono vissuti dai pazienti come fallimento, come prova della loro difettosità. Va detto che i pazienti hanno, in qualche modo, ragione. L'attivazione DV è per il mammifero la terza opzione, che si attiva quando le altre due (VV e SNS) sono fallite. Da qui il senso di fallimento associato a queste reazioni. Sebbene associata all'incremento della produzione di oppioidi endogeni, che rendono la persona insensibile al dolore, potremmo suggerire che l'esperienza DV è per il mammifero psicofisiologicamente penosa. Esiste una difesa che i pazienti possono usare per non rientrare in contatto con l'esperienza DV: l'attivazione impropria del SNS adottata come stile usuale di attivazione. Ricordiamo che l'attivazione di questi circuiti è gerarchica, se tengo attivo il SNS tengo a bada quello inferiore, il DV. Il soggetto è in uno stato eccitato, che gira un po' su se stesso, uno stato che si avverte falso. Le emozioni che vi si accompagnano sono emozioni esagerate e autogenerantesi: una rabbia non giustificata dalla situazione, un'allegria tenuta in piedi per forza, un'ansia di fondo ingiustificata. Alla luce di quanto detto sul SNA e sulla difficoltà del mammifero di muoversi negli stati DV, la ragione del mantenimento di questa impropria attivazione del SNS sta nel fatto che, in questo modo, il paziente si mantiene al sicuro dal ritornare in stati DV, che ha sperimentato e che sa essere troppo dolorosi per tornarci. Bibliografia: S. Porges - "La teoria polivagale - Fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell'attaccamento, della comunicazione e dell'autoregolazione" - Fioriti Editore G. Giovanozzi - "Applicazioni cliniche della Teoria Polivagale di Porges all'EMDR" - Rivista di psicoterapia EMDR, n. 30, Settembre 2015 "Il lutto è il processo dell'esperire le reazioni psicologiche, comportamentali, sociali e fisiche legate alla perdita." (Rando, 2014)
Il lutto non consiste solo nel decesso o nella perdita di una persona cara. Infatti, comprende diverse altre situazioni in cui una persona è esposta a cambiamenti o perdite, come il lavoro, divorzi o separazioni, aborti, perdite economiche, pensionamento, trasferimento dalla propria città. Una perdita può essere così devastante (traumatica) da bloccare l'accesso ai ricordi positivi e agli aspetti più importanti che abbiamo vissuto insieme alla persona che abbiamo perso. L'affioramento dei ricordi svolge un ruolo vitale nell'adattamento alla perdita. I ricordi del defunto fungono da ponte essenziale tra il "mondo con" e il "mondo senza" la persona amata e costituiscono i mattoni fondamentali delle rappresentazioni interiori. Per l'elaborazione del lutto è essenziale una rappresentazione interiore adattiva della persona cara. L'attaccamento e i rapporti con le persone care defunte non si perdono, si trasformano. La ricerca indica che le persone, anziché distaccarsi dalla persona cara, trovano un modo di mantenere una sua rappresentazione interiore dinamica e mutevole nel tempo. I ricordi della persona cara che abbiamo perso, ci fanno capire e prendere atto del significato della relazione, del suo ruolo nella nostra vita e nella nostra identità, e ci consentono di portare nel futuro la sicurezza fondamentale di aver amato e di essere stati amati da lui, di aver dato molto e di aver ricevuto. Questi aspetti non si perdono, ma rimangono come una rappresentazione interiore adattiva da portare con noi. Vi sono, però, situazioni caratterizzate da rappresentazioni interiori negative tali da causare disagio. Questo si verifica nelle relazioni complicate da rabbia, ambivalenza, colpa, dipendenza, abuso. Quando tali rappresentazioni interiori suscitano disagio, i traumi, i conflitti e i ricordi negativi devono essere elaborati per portare a una risoluzione del lutto adattiva. Il termine elaborazione del lutto si riferisce agli sforzi di adattamento, attraverso fasi specifiche, che una persona deve compiere per adattarsi alla perdita. Si ha, invece, un lutto complesso, quando si è in presenza di una compromissione, una distorsione o un mancato completamento di una o più delle 6 "R" dell'elaborazione del lutto, tenuto conto del tempo trascorso dal decesso. La perdita traumatica è lo stato di sofferenza per la perdita di una persona cara, quando il lutto per tale perdita è sopraffatto dallo stress traumatico causato dalle sue circostanze. Le 6 "R" dell'elaborazione del lutto L'elaborazione del lutto si svolge in tre fasi: evitamento, confronto emotivo e accomodamento. Il superamento di queste 3 fasi comporta delle tappe prestabilite: le 6 "R" che descriverò di seguito. Nella fase di evitamento il dolente è sopraffatto, incapace di comprendere cosa sia successo, ha un forte desiderio di volersi opporre all'accettazione della morte. E' necessario: Rendersi conto della perdita: prendere atto e comprendere il decesso, superare l'intorpidimento. La fase del confronto emotivo è un intervallo doloroso, momento in cui il dolente si confronta con la perdita e gradualmente ne comprende l'impatto. E' necessario: Reagire alla separazione: esperire il dolore, sentire, identificare, accettare e dare forma espressiva a tutte le reazioni psicologiche alla perdita, identificare e addolorarsi per le perdite secondarie (ciò che si perde in seguito alla perdita primaria. Es. Perdita del padre con conseguente trasferimento e quindi perdita di legami sociali). Rammentare, riesperire il defunto e il rapporto con lui: riesaminare e ricordare in modo realistico (senza idealizzazioni o svalutazioni) la persona, rivivere e riesperire le emozioni legate ai ricordi. Rinunciare ai vecchi attaccamenti al defunto e alle vecchie ipotesi sul mondo. Tipici presupposti sul mondo da rivedere sono: il mondo è benevolo (non mi accadranno cose brutte), il mondo (la vita) è pieno di significati (è controllabile, equo, l'esito è determinato dalla persona) e il sé ha valore (alle persone buone non accadono cose brutte). Durante la fase di accomodamento il dolente progredisce in modo adattivo nel nuovo mondo senza dimenticare il vecchio, è in grado di reinvestire emotivamente. E' necessario: Risolversi a progredire in modo adattivo nel nuovo mondo senza dimenticare il vecchio: rivedere le proprie ipotesi sul mondo, sviluppare un nuovo rapporto con il defunto, adottare nuovi modi di stare al mondo, formarsi una nuova identità. Reinvestire. Riassumendo l'intero processo, per elaborare un lutto è necessario che la persona entri in contatto con le emozioni dolorose, abbia accesso a rappresentazioni positive del defunto e si sappia adattare al nuovo rapporto con lui (attaccamento a una persona viva vs attaccamento a una rappresentazione mentale della persona) e al nuovo mondo senza la persona cara. 12 fattori di rischio nel decesso traumatico
Ho deciso di scrivere un mio pensiero riguardo una delle tante domande che, spesso, le persone si fanno prima di chiedere un aiuto psicologico ad un professionista: "qual è il giusto prezzo da pagare per una seduta di psicoterapia o per una consulenza psicologica?". Rispondere a questa domanda presuppone prendere in considerazione una serie di fattori importanti, cercherò di toccarne alcuni senza la pretesa di essere esaustivo in merito, ma di far riflettere su quelli che mi sembrano i più importanti. Prima di tutto dobbiamo pensare che siamo di fronte ad un professionista che, se anche utilizza "solo" parole e quindi non si vedono strumenti o macchinari particolari come può capitare in una visita medica, sta comunque lavorando. La parola è lo strumento dello psicologo, il suo bisturi, il suo stetoscopio, la sua vanga, ecc. Una seduta di un'ora (il caso più frequente) non è come una chiacchierata al bar, non si ricevono solo consigli come può dare il buon amico o la pacca sulla spalla perché, se così fosse, non esisterebbe la psicoterapia: una persona che si rivolge ad uno psicoterapeuta, in genere, ha già provato tutte le altre soluzioni senza risultati (e quindi consigli di amici e parenti, rassicurazioni varie, visite mediche, trattamenti alternativi, ecc.). Per lo psicoterapeuta, scegliere di dire una parola piuttosto di un'altra, in un momento particolare, scegliere di tacere o di fare un gesto invece di un altro, è faticoso e porta via energie: durante una seduta è necessario un continuo monitoraggio di sé stessi e del paziente.
Secondo, chi ha il titolo di psicologo è un professionista che ha preso una laurea, ha fatto un tirocinio e ha superato un esame di stato. Chi poi è anche psicoterapeuta ha fatto un'ulteriore scuola di specializzazione di almeno quattro anni, ancora un tirocinio e un esame di specializzazione, quindi nessuno può improvvisarsi tale da un giorno all'altro. Molti, spesso, si credono psicologi perché sanno ascoltare, dare consigli ma un conto è pensare di esserlo e un conto è avere la preparazione per esserlo. Un percorso di questo tipo, con le conseguenti competenze acquisite, va riconosciuto nella parcella...credo. Senza considerare che qualcuno ha svolto ulteriori corsi di formazione. Fatte queste premesse, è evidente che chi si "svende" a poco prezzo o si sta svalutando o, più frequentemente, non sta facendo quello per cui lo stiamo pagando, stiamo facendo una chiacchierata "al bar". Su internet spesso si possono trovare pacchetti di 7-8 sedute a 30€ o simili, qui è chiaro che siamo di fronte ad una truffa, ad una persona che non sa qual è la fatica di una seduta di psicoterapia e quindi 30€ per qualche chiacchierata sono più che sufficienti. Diffidare sempre di chi non dà un giusto valore al lavoro che sta facendo e, soprattutto, controllare sempre che la persona, a cui stiamo affidando la nostra salute, sia un professionista iscritto all'albo (Albo nazionale degli psicologi) e quindi con la preparazione e i titoli giusti per aiutarci. Detto questo meglio spendere qualche euro in più, ma sicuri di essere in mano ad un professionista, che spendere poco e buttare i soldi, nella migliore delle ipotesi, o farvi addirittura del male nella peggiore. Per orientarvi meglio: tariffario dell'ordine nazionale degli psicologi. Le persone con disturbo dissociativo complesso hanno un'organizzazione dissociativa della loro personalità che risulta composta da due o più parti dissociative, ciascuna con risposte, sentimenti, pensieri, percezioni, sensazioni fisiche e comportamenti sue proprie e, almeno in parte, differenti. Queste parti (non importa quanto vengano sentite come separate) non sono altre "persone" o "personalità complete", ma piuttosto delle manifestazioni del modo in cui la tua singola personalità è organizzata. La persona è una sola, anche se è comprensibile che non sempre si senta in tal modo.
Sebbene ogni persona possa avere alcuni tratti distintivi delle sue parti dissociative, vi sono alcune tipiche somiglianze in comune nel funzionamento di base delle parti. Quando una persona è stata traumatizzata, la sua personalità si è in genere organizzata in almeno due tipi di parti, basate su funzioni specifiche. Il primo tipo di parte è focalizzato sulla gestione della vita quotidiana e l'evitamento dei ricordi traumatici, mentre il secondo tipo è bloccato nelle esperienze traumatiche passate ed è focalizzato sulla difesa di fronte alla minaccia. La parte della personalità che funziona nella vita quotidiana spesso comprende la porzione maggiore della personalità. Questo tipo di parte di solito evita di avere a che fare con, o persino di riconoscere, altre parti, sebbene ne possa comunque subire l'influenza in vari modi. Questa parte tende a evitare situazioni o esperienze che possano evocare ricordi traumatici. Mentre la parte che affronta la vita di ogni giorno è evitante, almeno un'altra parte, e di solito più di una, resta "incastrata", bloccata nei ricordi traumatici e pensa, sente, percepisce e agisce come se tali eventi fossero ancora in corso o fossero in procinto di accadere nuovamente. Queste parti sono tipicamente bloccate nella ripetizione di comportamenti che sono protettivi in caso di minaccia, anche quando non sono appropriati per il momento presente. Queste parti sono spesso altamente emotive, non molto razionali, limitate nella capacità di pensare e percepire, non orientate nel tempo presente e si sentono sfinite e sopraffatte. Vivono primariamente nel "tempo del trauma". Anche quando le parti sono a conoscenza della loro reciproca esistenza, spesso non sono in accordo tra loro sulle questioni che sono importanti per la persona nel suo complesso. Uno degli obiettivi della terapia è imparare a sviluppare le abilità necessarie per far accordare tra loro le parti. La maggioranza delle parti dissociative influenzano la tua esperienza dall'interno piuttosto che esercitare un completo controllo (come può essere in un DDI). Vi sono diversi tipi caratteristici di parti della personalità che restano bloccate nel tempo del trauma. Queste parti sono rappresentazioni di conflitti ed esperienze abituali che tendono ad essere difficili da integrare. Parti giovani e bambine (parti ferite). Queste parti spesso contengono e trattengono ricordi traumatici, emozioni o sensazioni angosciose, dolorose, ma talvolta hanno anche ricordi positivi. Queste parti esprimono tipicamente sentimenti di desiderio, di solitudine, di dipendenza e di bisogno di consolazione, aiuto e sicurezza insieme a sfiducia e timore del rifiuto e dell'abbandono. E' del tutto naturale e comprensibile che le persone che sono state trascurate o abusate vivano queste esperienze di bisogno. Allo stesso modo è piuttosto comune che altre parti di sé trovino questi normali bisogni ripugnanti o pericolosi, visto che in passato hanno avuto esperienze negative nell'esprimere quello che volevano o di cui avevano bisogno. Perciò alcune parti della personalità rifiutano le parti "bisognose" e ritengono che sia meglio non avere bisogni e contare solo su sé stessi. Questa situazione innesca un tipico conflitto interno tra parti che sono bisognose e parti che provano paura o repulsione per tali bisogni. Parti che imitano le persone che vi hanno fatto del male (parti difensive). Di solito vi sono parti della personalità piene di rabbia e collera che sono difficili da accettare e che vengono vissute da altre parti come terrorizzanti. Queste parti umiliano, minacciano o puniscono altre parti interne oppure possono dirigere la loro rabbia verso altre persone nel mondo esterno. Nonostante il comportamento di queste parti possa essere piuttosto spaventoso e vergognoso, tanto quanto inaccettabile, è importante capire che queste parti hanno delle buone ragioni per esistere. In origine si sono sviluppate per proteggerti, contenendo le molte esperienze angosciose di rabbia, impotenza e talvolta la colpa e la vergogna. Parti che lottano (parti difensive). Alcune parti arrabbiate sono bloccate in una lotta difensiva contro una minaccia. Queste hanno la funzione esplicita di proteggere la persona attraverso risposte combattive verso altre persone o verso parti interne che in qualche modo evocavano minaccia. Le parti combattive spesso ritengono di essere forti, di non essere state ferite e sono capaci di mettere in atto reazioni fortemente aggressive nei confronti di minacce percepite o di comportamenti irrispettosi. Parti che provano vergogna (parti sofferenti). La vergogna è l'emozione principale che mantiene la dissociazione. Alcune parti della personalità sono particolarmente evitate e vituperate perché custodiscono esperienze, sentimenti o comportamenti, che la persona, o alcune parti, ha etichettato come degne di vergogna o disgustose. Sarà necessario essere particolarmente empatici e pieni di accettazione nei confronti di queste parti. Le parti dissociative che funzionano nella vita quotidiana vogliono avere a che fare il meno possibile con le parti dissociative bloccate nelle esperienze traumatiche. Le parti bloccate nel tempo del trauma si sentono spesso abbandonate e trascurate da quelle che cercano di tirare avanti senza di loro nella vita di tutti i giorni. Questi perduranti conflitti interni possono essere dolorosi e terrorizzanti e costano alla persona con disturbi dissociativi un enorme dispendio di energia Come detto in precedenza, tutte le parti hanno bisogno di imparare ad accettare e cooperare tra loro. Bibliografia: S. Boon, K. Steele, O. van der Hart - "La dissociazione traumatica comprenderla e affrontarla" - Mimesis |
Details
Blog del Dr. Fabio Boccaletti - Psicologo e PsicoterapeutaCategorie
Tutti
|